non sono mai stato un grande videogiocatore, eppure sono sempre stato attratto dai videogiochi.
diciamo che io sono uno di quelli da “intro”, uno che vede l’inizio del gioco, l’intro appunto, spara due colpi, gira nella prima stanza, casca nel primo buco sul pavimento, viene ucciso dal primo mostro, si rompe le palle e molla lì.
però ogni tanto vado sempre a vedere a che punto stanno i videogiochi. la grafica in particolare attrae la mia attenzione, sulla giocabilità so dire poco perchè, come detto, non gioco, ma mi piace guardare. sono un voyeurista dei videogiochi.
i videogiochi si sono parecchio trasformati nei decenni. ci sono anche testi di storia dei videogiochi, ma una sintesi può essere questa:
prima i giochi erano fatti da gruppi di lavoro minuscoli, per non dire che le software house erano in realtà fatte da una sola persona, che aveva l’idea, inventava la trama, scriveva il programma, disegnava la grafica, insomma tutto.
http://www.youtube.com/watch?v=EZiIQvUT7nE
questo ovviamente garantiva la creatività: andavi dove ti portava il cuore, e c’era talmente poca storia e concorrenza nel settore, che era difficile massificarsi, anche volendo.
per esempio questo è Jeff Minter, inglese, un pioniere dei videogiochi, di quando i videogiochi si chiamavano “L’attacco dei Cammelli Mutanti” o “Pecore nello spazio”, e la sua software house la vedete nella foto: lui e il suo computer nella sua stanza
poi pian piano tutto si è complessificato e banalizzato.
oggi per fare un videogioco servono decine (per non dire centinaia) di persone. e questo ha portato alla banalizzazione, perchè se sei da solo fai sostanzialmente il cavolo che ti passa per la testa, se sei in un gruppo di lavoro di 50 persone, con un budget milionario (che devi restituire, possibilmente moltiplicato, a chi l’ha investito), con tempi di rilascio obbligati, ecc. ecc., il margine per la creatività è zero.
e infatti oggi i giochi sono tutti, completamente, tristemente, uguali.
pensate alle differenze che c’erano un tempo tra ‘Pacman’, ‘Asteroids’, ‘Pong’ e ‘Tetris’, e pensate alle differenze che ci sono oggi tra ‘Crysis’, ‘Metal Gear solid’, ‘Dead Space’, ‘Splinter Cell’, e tutti gli altri: oggi sono tutti lo stesso identico gioco, in cui cambia forse il nome del protagonista e il nome dell’arma che usa. e basta.
gli engine che muovono i videogiochi moderni sono talmente complessi, che le società nel mondo in grado di svilupparli si contano sulle dita di una mano, e probabilmente vi restano anche delle dita libere. questo significa che qualunque gioco voi proviate, è sempre lo stesso gioco, succedono le stesse cose, ci sono gli stessi effetti, offre gli stessi gradi di libertà.
ma la banalizzazione odierna non è solo sul lato tecnologico, è anche, e soprattutto, sul lato creativo/culturale.
perchè? perchè in qualsiasi videogioco devo vedere in prospettiva un palazzo decadente, devo avere in mano un’arma, e devo uccidere creature che altrimenti uccidono me?
che il gioco sia ambientato nel passato o nel futuro, che inizi con un giovane e una giovane che si baciano o con un drago che cala sulla terra, o con uno slalom tra pianeti, in qualunque caso, nel giro di un attimo, mi ritrovo a sparare come un pazzo per eliminare creature.
sparare per eliminare creature.
sparare per eliminare.
sparare.
lo so, esistono delle eccezioni, esistono tanti tentativi di creare giochi diversi, ma nella migliore delle ipotesi questi giochi sono stati fenomeni di nicchia (vedi ‘Spore’,’Syms’,’Symcity’ e pochissimi altri), nella peggiore delle ipotesi sono falliti perchè non hanno venduto nulla.
detto questo, precisato che voi software house avete veramente rotto le palle con i vostri FPS (‘First Person Shooter’, ‘sparatori in prima persona’, mai definizione fu più calzante), vorrei fare un elogio agli engine.
quello che va detto va detto: tutti gli engine puntano allo stesso tipo di gioco First Person Shooter, e in questo sono banali, ma la grafica, il livello di dettaglio, il realismo, la ‘credibilità’ che hanno raggiunto oggi fa davvero impressione. mette i brividi.
il grosso balzo in avanti negli ultimi anni è stato fatto sulle luci (le luci sono tutto nella narrazione visiva), e sulla fisica. soprattutto sulla fisica. la fisica di un gioco è quella parte di engine, di algoritmi, che serve a rendere più credibile tutto ciò che riguarda il movimento.
http://www.youtube.com/watch?v=qq7-hTVP9AE
la fisica comprende il calcolo agli elementi finiti per simulare un muro che si sgretola o un ponte che esplode, la cinematica inversa per simulare una bestia che cammina, perde l’equilibrio, e cade, la fluidodinamica e i campi di particelle per simulare perfettamente l’acqua, il fumo, il fuoco.
http://www.youtube.com/watch?v=j0G8IgJxLRE
certo, io c’ho da ridire anche sugli engine…
perchè non sperimentare un po’ anche negli engine? perchè non randomizzare un po’ le cose? perchè non giocare un po’ con la fisica (cambiandone le leggi, visto che nel virtuale si può)? perchè non abbandonare una buona volta il realismo per evolvere nell’astrattismo e nel concettuale, come è successo in tutte le arti visive?
ve lo immaginate un engine cubista? o un physics engine ad improbabilità infinita?
forse i tempi sono ancora immaturi, forse lo sono i consumatori, forse gli imprenditori, o forse tutti quanti, il chè è come dire che tutti sono normali e sono io il problema…
…però davvero mi piacerebbe più originalità, più capacità di astrazione, nei videogiochi, più provocazione, più ribaltamento dei punti di vista.
comunque sia,
turiamoci il naso sulla violenza,
facciamo spallucce di fronte alla mancanza di originalità,
ed ecco i più pompati titoli di videogiochi che arriveranno nel 2013:
il lavoro manuale, quella cosa che è iniziata con gli ominidi e che imperterrita va avanti di pari passo con l’evoluzione dell’umanità.
io subisco una fascinazione drastica verso chi sa usare le manine,
cioè per chi riesce a collegare perfettamente il cervello agli arti,
per chi cristallizza nei decenni un sapere perfetto, fatto di miliardi di tentativi e correzioni,
fino a diventare un artista marziano, un uomo, con il suo pizzetto arzigogolato, che compie un milione di movimenti apparentemente uguali, apparentemente insignificanti, ma tutti infinitesimamente diversi, secondo un processo che rappresenta la summa dell’intelligenza umana.
fare la cosa che appare come la più banale e umile del mondo, seguendo un processo che è la cosa più complessa del mondo.
c’è una dignità e una superiorità in queste persone che le pone sopra, fuori, da ogni epoca, che le rende inossidabili al tempo, inattaccabili dal progresso, e, ovviamente, indispensabili all’umanità.
per quanto mi riguarda questa persona vale tanto quanto un papa, anzi di più:
perchè non ha la pretesa di giudicare o decidere del destino altrui, perchè non entra nella vita di nessuno senza che alcuno lo chieda,
e al contempo se lui si ferma, il mondo si ferma,
perchè sa fare qualcosa che nessun altro al mondo sa fare.
vorrei uomini come questo a decidere le sorti del mondo,
ma uomini come questo se ne guardano bene dal miraggio del potere.
loro il potere già ce l’hanno.
se dio esiste ha davvero uno humor da prete,
perchè ha creato l’albero, la mela, una miriade di affamati, e pochissimi capaci di aiutare un albero a crescere.
Negli anni Sessanta questa era una città importante per gli appassionati di moto.
Il fuoristrada è nato in quegli anni, nelle nostre valli, la Sei Giorni, la Cavalcata, su per mulattiere e ghiaioni, erano gare massacranti, si sudava come bestie.
Io correvo con la Gilera 175, ma si teneva duro, perché l’ultimo giorno c’era l’ora di velocità, a Monza, in pista, con le gomme tassellate, ma non come quelle ecologiche di oggi, proprio i tasselli da trattore, era tutta una derapata, facevamo già supermotard, anche se lo chiamavamo in un altro modo.
Poi sono arrivate le prime giapponesi, le prime quattro cilindri, le Honda Four, e le due tempi, le Suzuki, le Kawasaki.
Ricordo come fosse ieri, sarà stato il ’68 o il ’69, c’era la contestazione, il femminismo, non si capiva più niente, ma era primavera e io aspettavo una telefonata da Genova, dal porto, stavo tutto il giorno al bar Orobico, in viale Roma, ad aspettare questa telefonata.
Finché una sera che era già tardi, mezzanotte passata, il barista mi chiama, ti cercano al telefono, non ci credo, è arrivata, parto subito con un amico, nell’autostrada deserta la Giulia canta che è un piacere.
Siamo a Genova prima delle tre, arriviamo a un certo molo, lei è lì, ancora imballata, la tiriamo fuori dalla cassa, montiamo il manubrio, due regolazioni, un po’ di benzina travasata dalla Giulia, e via, la prima Kasasaki 500 arrivata in Italia era già in strada, ed era la mia…
Poi bisognava fare 600 chilometri di rodaggio, bisognava educarla, addomesticarla, formargli il carattere, renderla competitiva…
Eravamo un bel gruppo, tutti con la passione, una passione totale, passavamo le giornate ad allenarci per la Sei Giorni con le moto da regolarità, anche d’inverno, mettevamo le ruote chiodate, una roba da brividi…
Poi la sera, tanto per fare qualcosa di diverso, con le moto da strada, si stava al bar fino all’ora di chiusura, poi, quando non c’era più in giro nessuno, in piena notte, su e giù dieci volte Bergamo-San Pellegrino senza soste, erano queste le gare che facevamo.
Chi perdeva, pagava il cognac, ma quello buono.
Ricordo quella sera del ’69, eravamo al solito bar in viale Roma, avevamo appena visto in televisione l’astronauta Armstrong mettere piede sulla Luna, avevamo le moto lì fuori già calde, e uno ha detto: vediamo chi arriva alla Marianna su una ruota.
Il punto critico era Porta Sant’Agostino, allora uno si è piazzato a bloccare il traffico, mentre noi si passava, lì ricordo che qualcuno è caduto, io con il Kawa mai, stava su che era un piacere, la guidavi in aria col manubrio come una vela, i piedi sulle pedane dietro, quelle del apsseggero, aveva un equilibrio fenomenale su una ruota, su due no, era un po’ ballerina, ma su una ruota diventava stabile…
La domenica si partiva in gruppo, appuntamento al bar, si prendeva l’autostrada, al bivio della Serravalle ci aspettava la banda Galtrucco, i nostri rivali milanesi, appena ci vedevano, o ci sentivano arrivare, gas, e si gareggiava come matti, come incoscienti, sdraiati su quei missili senza freni passavamo sotto le portiere delle Seicento, vedevi al volante impiegati allibiti coi bambini incollati al finestrino a guardarti, si fermavano a chiamare la polizia, ma la polizia cosa poteva fare, mica riusciva a restarci dietro…
Ricordo una domenica, ci si era detti “oggi non andiamo troppo lontano”, va bene, andiamo a mangiare a Sarnico, si parte a manetta…
un quarto d’ora e siamo arrivati, è presto per andare a mangiare, dai che arriviamo giù a Canneto, che andiamo a mangiare le rane…
poi dopo mangiato un caffè, non sono neanche le due, dai che andiamo a bere un Fernet alla Futa, altro pieno, altra gara…
e arrivati alla Futa vediamo che è la giornata è proprio bella e ancora giovane, e allora uno dice: io vado a bere l’aperitivo al belvedere Michelangelo, e qualcuno chiedeva dove fosse, a Firenze, bestia, ed eri già in sella, perché chi arrivava prima cominiciava a bere, e gli ultimi pagavano…
Alla fine della stagione avevi fatto venti o trentamila chilometri, bisognava cambiare moto.
Oggi vedo moto con duecento cavalli, gli fanno fare si è no duemila chilometri in tutta la stagione, la usano per andare da un bar all’altro, questo lo facevamo anche noi, solo che magari i bar dove andavamo noi erano a Viareggio, a Venezia, a Sanremo o a Cervinia…
(testimonianza raccolta nel 2006 al bar Le Iris-Bergamo dal BaDante Leone Belotti)