47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 11

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Pierina

11 Paraletteratura cattolica

Le opportunità dell’iconografia cristiana

Un grande art che mi ha fatto da magister (oltre che farmi lavorare con lui per alcune agenzie storiche) il primo giorno nella grande agenzia mi ha detto:

adesso ti porto in un posto dove ti terrò una lezione sostitutiva dei 4 anni di scienze della comunicazione o similari.

Mi ha portato in una chiesa.

Tra una bestemmia e l’altra, mi ha detto: l’immaginetta della Madonna è la base della pubblicità, qualsiasi foto pubblicitaria si basa sull’arte sacra, qualsiasi spot non è altro che il remake della scena di Adamo ed Eva, dove tu, il pubblicitario, fai la parte del serpente.

Nelle vite dei santi ci sono già tutti i miracoli del nuovo rasoio, del nuovo detersivo, della nuova sottoveste.

Ti serve un nuovo eroe, un testimonail ideale? Cerca il santo giusto, riportalo in vita, efficacia garantita.

Nell’iconografia sacra, composizione, taglio immagine, toni, uso della luce c’è già tutta la pubblicità di moda. D’accordo.

Quello che non ho ancora capito, e che lui si è sempre rifiutato di spiegarmi (lo capirai da solo) è come mai questo ricchissimo patrimonio narrativo-iconografico, sia oggi così poco e male utilizzato dall’azienda in questione (la chiesa).

Mi spiego. Fino al Sette-Ottocento l’iconografia sacra è stata il media-linguaggio leader,  continuamente rinnovato. Con l’arrivo dei linguaggi laici, dell’arte laica, dell’immagine laica, dagli impressionisti in poi fino alla pubblicità, alla fotografia, alla tv e al web, il linguaggio del messaggio-azienda cattolico ha smesso di evolversi.

La mia domanda è: perché l’immagine cattolica è così vecchia, triste, perché le immaginette sono ancora quelle degli anni Cinquanta, perché qualsiasi cosa dal bollettino parrocchiale ai paramenti sacri è rimasta ferma a un gusto superato, poco attraente?

Sono convinto che rinnovare il linguaggio arte sacra-immagine coordinata del leader di mercato religioso – la chiesa cattolica – sia una dei pochi grossi business di comunicazione rimasti.

Ogni volta che mi capita di lavorare per qualche azienda del gruppo Vaticano ci provo.

Così, quando un editore cattolico mi chiede testi e idee per un libro fotografico sulle chiese barocche della diocesi, propongo e realizzo un format inedito, una specie di foto-romanzo devozionale di gusto contemporaneo

(cos’altro sono i servizi moda di Vogue dove un’allucinata anoressica seminuda si aggira con espressione mistica in qualche location straniante?).

Le immagini delle diverse basiliche illustrano brevi “romanzi paralleli” che hanno questo schema: il narratore è un peccatore che in prima persona, in flusso di coscienza-preghiera, tra i banchi della chiesa, confronta le vite dei santi del posto e la sua vita di peccatore moderno.

Il libro viene pubblicato e dato in omaggio a decine di migliaia di persone (non ricordo se correntisti di una certa banca o abbonati di un certo giornale o entrambe le cose).

Vengo a sapere che piace molto al segretario del vescovo, un po’ meno al vescovo.

Accetto di scrivere testi per un Museo Diocesano, ho un mio tavolo nel centro studi che fa parte della struttura, ma dopo due giorni nella cripta circondato da memento mori sono già sessualmente frustrato come quelli che ci vivono da vent’anni.

Esco a bere un caffè e quando rientro scrivo: “Malattie stagionali primaverili/ la città comincia a pullulare di donne mozzafiato e tu soffri d’asma: raffreddore da figa”.

Fine della mia esperienza di Church-writer. E pensare che ero già diventato papista, e propugnavo la Chiesa come committente di ogni opera della spirito.

Crisi.

In seguito, in varie occasioni ho proposto a fotografi amici, sempre in cerca di temi per un calendario fotografico, di realizzare un calendario (con modelle, location, abiti e truccatori) di sante e santi da riscoprire, adatti ai tempi.

Più d’uno si è molto eccitato all’idea, che poi non ha avuto seguito. Troppo difficile.

Crisi.

Più recentemente con Athos Mazzoleni e Mattia Dal Bello, per far vedere questa mia idea dell’attinenza tra arte sacra e fotografia di moda, ho creato una performance e un video dal titolo “Macabre Dance 2011” (visibile in http://vimeo.com/34066507) dove un affresco capolavoro d’arte sacro-funeraria medievale (la Danza Macabra di Clusone) viene affiancato da affissioni di pubblicità moda, con effetto di doppia perversione, per cui le pitture sacre paiono sexy mentre i modelli delle griffe si rivelano macabri.

L’abbiamo mandato al premio arte Laguna, sezione video-art, alla selezione finale la giuria si è divisa, niente premio.

Crisi.

Nel contesto barocco delle basilica, però, mi viene una nuova idea. Creare un gruppetto di musica pop, i cattogay, che sono tre chierichetti, con incenso, campanellino e smorzacandele, che canticchiano un motivetto tecno-dance che ha come testo: mi pento e mi dolgo, o Gesù d’amore acceso, non ti avessi mai offeso, e altri catto-haiku.

Lo proponiamo a Gian Franco Bortolotti, già produttore di hit dance come “Touch me” con la sua etichetta “media records”.

A Bortolotti l’idea piace, mi chiede di scrivere il testo definitivo mentre lui cerca gli interpreti adatti. Sul più bello un giorno leggiamo sul Corriere: “Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati”, recita Madonna nel suo nuovo album in un brano-confiteor che si intitola non a caso «I’ m a sinner» («Sono una peccatrice»). Il disco esce il 26 marzo in tutto il mondo. Promette faville, anzi di più, visto che ha totalizzato il più alto numero di prenotazioni della storia di iTunes.

Fine del progetto “mi pento e mi dolgo”.

Crisi.

Dopo quest’ulteriore delusione, ho scavalcato il fosso, mi sono immedesimato nel prossimo papa, Leone XIV, e ho scritto un’enciclica, la Rerum Novissimarum, versione turbo della Rerum Novarum ottocentesca di LeoneXIII, sorta di manifesto degli indignati cattolici, in opposizione al conservatorismo destrorso di Papa Razzi.

Chi poteva prevedere di essere scavalcato dalla realtà, e ritrovarsi un vero papa super-sovversivo come il mitico Cecco della Pampa?

Crisi.

(imago: Anima Virgo-Pierina Morosini by Athos Mazzoleni,

prove d’immaginetta per NaturalMente2013)

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 10

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boggiarab

10 brand writing

lo scrittore da immagine coordinata

Oggi Boggi è un marchio moda molto conosciuto, una catena con negozi in tutta Italia. Quando ho cominciato a lavorare per Boggi l’unica cosa che esisteva era il signor Boggi con i suoi 7-8 negozi a Milano, tutti diversi, con nomi diversi, niente marchio, niente immagine coordinata.

La creazione del brand, di fatto, è stata opera dell’arch. Baroli, che ha creato il logo, i colori, il lay out vetrine, le etichette e la comunicazione. Io scrivevo tutto il necessario, dagli head line (Boggi/tempi di contenuti e Boggi ha solo clienti fedeli a sé stessi) a tutto il corollario di etichette, inviti, cartelle stampa, brevi storie del cachemire, della camicia, del taglio sartoriale, piccoli librini dati in omaggio nei negozi. Un lavoro di anni, la costruzione di un’identità di marca.

Poi un bel giorno Boggi ha venduto il giocattolo a una finanziaria, si è preso i suoi milioni di euro, e la nuova proprietà ha affidato la comunicazione alla grande agenzia.

Crisi.

L’esperienza a fianco di Luigi Baroli in realtà è stata preziosissima. Tutta quell’attenzione maniacale (che io allora non capivo) all’integrazione prodotto/vetrina/comunicazione in quegli anni Novanta era l’arma totale per dare visibilità e valore al marchio, erano gli anni della fidelizzazione, della fedeltà di marca, tutte cose che derivano dal saper proporre e rinnovare un universo coerente, un linguaggio riconoscibile, una storia credibile.

Si tratta di imparare a calibrare un certo tono, uno stile di comunicazione, come se l’azienda fosse una persona, con un suo lessico, una sua mentalità.

Lo scrittore da immagine coordinata, mi diceva un vecchio art, non deve essere un dio, ma bensì il suo assistente, cioè quello che, dopo che dio ha mosso l’indice e promanato il verbo, lavora duro tutta la settimana per completare la creazione di ogni ordine e specie vivente.

In un certo senso occorre saper fare il contrario del gesto creativo istintivo, che vuole inventare, colpire, stupire, no, qui bisogna dare continuità e coerenza e sicurezze e conferme al messaggio originario, il verbo aziendale, fisso come il sole, e solitamente banale.

Un lavoro da svolgere in simbiosi con l’art o l’arch che crea l’immagine di marca, e tutto il corredo infinito che va dal biglietto da visita al lay-out dei negozi passando per le insegne, le etichette, il packaging, le campagne pubblicitarie, le brochure, i cataloghi, tutta roba che oggi viene fatta per il sito web, a volte dimenticandosi una delle regole basi (il mezzo è il messaggio).

Di fatto poi nelle richieste quotidiane ti ritrovi a misurarti con crisi di rigetto, impieghi mezza giornata a scrivere quelle maledette dodici righe dove ancora una volta devi saper dire tutto sull’azienda e sulla qualità del prodotto specifico.

Crisi.

Ad ogni modo, se entri nel tunnel dell’immagine coordinata  e dell’identità di marca, ci puoi portare dentro chi vuoi, è un discorso che dà sicurezza, è come spiegare a Hitler che per invadere la Polonia occorrono divisioni corazzate, copertura aerea, e fanteria d’assalto, nell’ordine. Ti seguono subito.

In realtà, la vera missione del creativo, dopo aver convinto il cliente a dotarsi di un’immagine positiva, è quella di convincerlo ad avere non solo un’immagine, ma una sostanza, un’identità positiva, e dunque a migliorare realmente il prodotto, il servizio, indirizzare la filosofia aziendale nell’ottica della sostenibilità sociale/ambientale e della consapevolezza del consumatore.

Cominci a entrare nella psiche di un’azienda scrivendo le istruzioni tecniche o le didascalie del catalogo, ma devi avere già in mente la visione strategica complessiva.

Con la rete web e le opportunità dell’e.commerce, figura ruolo e prospettive del brand writer entrano in una nuova direzione.

La tendenza è in certo modo sovversiva, il creativo diventa egli stesso negozio, può scegliere i prodotti da comunicare e vendere, gestire in proprio tutto il web-marketing, accorciare e riunire la filiera della costruzione del valore culturale aggiunto e della distribuzione commerciale.

I brand writer di domani saranno dei blogger dotati di capacità di persuasione che si muoveranno su diverse piattaforme di e.commerce come ambulanti nei mercatini, ripristinando in modalità web la figura del commerciante-persuasore capace di raccontare il prodotto, un prodotto che sperimenta egli stesso, figura ormai scomparsa nella grande distribuzione dove tutto è affidato all’immagine coordinata e il commesso-venditore ha solo una funzione di servizio.

Il brand writer del web e dell’e.commerce, più che scimmiottare i format dell’epoca cartacea, dovrà agire nella costruzione della community-clienti, stimolando risposte e partecipazione così da rendere partecipe il target stesso alla costruzione della mitologia di marca.

Dunque dovrà creare delle occasioni di comunicazione, offrire occasioni di visibilità, gallery fotografiche, video, profili facebook e/o twitter o altro a seconda del target e del prodotto, e invece di imporre e inviare messaggi a senso unico, dovrà inventarsi dei giochini, degli scherzetti, con meccanismi virali, per solleticare risposte e contributi.

Alla fine fai sempre una forma di letteratura, e ancora una volta dimostri il teorema per cui con la letteratura giusta si può vendere facilmente di tutto.

Eccetto la letteratura, chiaramente.

Crisi.

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 9

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9 concept writing 

creare una mitologia di marca 

Chiamo concept writing la scrittura della scheda madre di un programma commerciale, di un prodotto, una linea, un’azienda, un marchio, un’istituzione, un partito politico, una minestra, un gelato, un movimento d’opinione.

Il nome, lo slogan, l’idea su cui si basano le sinergie, le strategie, il business plan, ecco cosa intendo per concept writing, dare forma e funzione a un’idea, dargli un’anima, un’anima comune a un target psico-emotivo, prima che sociale.

Il target sociale è consequenziale, viene dopo, cioè: nella mente dell’uomo di marketing viene prima, ma viene dopo nella mente del creativo, dove nasce ciò che viene prima di ogni applicazione marketing.

In principio era il verbo.

Quindi l’immaginetta della madonna.

La pubblicità è tutta qui.

In quel verbo iniziale c’è tutto il valore e la forza evocativa del prodotto, che è sempre un prodotto psichico, anche quando è un biscotto, come ha bene spiegato Proust nella sua ricerca del tempo perduto e ha ben compreso Alberoni quando ha detto a Barilla di chiamare “Mulino Bianco” la sua linea biscotti.

Il concept writing, come ogni adv writing, è una scrittura in primo luogo mentale, una de-scrittura, una riduzione in cerca del gesto vitale primitivo, che è fatto di due parole, con dentro la pulsione, la radice dell’architettura semiotica che poi verrà progettata intorno, per stare in tema.

Ecco, il concept writing è il progetto interno al “progettato intorno”.

La mitologia originaria, il paradiso perduto, qualcosa capace di proiettare un sogno senza fine. Una frase, un nome, un’immagine, un’icona, una favola.

A volte crei un concept formidabile senza nemmeno rendertene conto.

È il destino del creativo. Immaginare mondi fantastici che poi altri costruiranno con successo.

Nella mia esperienza, il caso topico è l’ideazione della favola Pinco Pallino.

Siamo nel  1994, mi pare, quando Enrico Baleri, che sta progettando la sede di questo marchio di moda bimbo di lusso, Pinco Pallino, mi chiede una fiaba in tot battute, che in origine doveva decorare come un invito-richiamo gli esterni della fabbrica-atelier,ma una volta vista la favola hanno pensato bene di farne qualcosa di molto più pervasivo, un tipo di comunicazione nuovo,

una favola aziendale invece di una filosofia aziendale,

una favola usata come layout, logo, marchio, filosofia aziendale, immagine coordinata, parole che diventano tappezzeria, moquette, poltrone, maniglie, sacchetti, vetrine, pubblicità, tutto. Una favola-logo.

Su questa favola hanno disquisito sociologi, uomini marketing, pr.

Hanno fatto libri, corsi di comunicazione, spettacoli, galà di beneficenza.

Oggi Pinco Pallino fattura decine di milioni di euro, la mia fiaba è scritta a caratteri cubitali sui muri della sede, sulla moquette di tutti i negozi del mondo, sui sacchetti, sulle magliette, sulle etichette, sulle pubblicità, sui cataloghi, ovunque insomma, e in occasione delle sfilate invitano Lella Costa a recitarla.

Io naturalmente non ho più visto una lira.

Creare il concept base di un business gigante, e restarne escluso, nella realtà succede di frequente, e se sei un creativo indipendente hai poco da fare, loro possono permettersi avvocati e cause decennali, tu no.

Oggi molti bambini della classe dirigente di fine millennio, cresciuti a moda Pinco Pallino, sono ormai ragazzi e ragazze che studiano scienze della comunicazione, ed è ora che sappiano cosa c’è dietro le favole in cui sono cresciuti.

La vera storia della favola di Pinco Pallino, ad esempio, nessuno la conosce, nessuno l’ha mai raccontata, eppure è una storia molto indicativa, non per bambini forse, e forse un po’ triste, ma piuttosto istruttiva.

Siamo nei primi anni Novanta del secolo scorso.

L’idea viene, come dicevo, a Enrico Baleri, e l’idea in origine è: una favola per decorare gli esterni del nuovo capannone-atelier di questo marchio moda bimbi di lusso, Pinco Pallino, un marchio allora in rampa di lancio.

A quel tempo io ero uno dei tanti giovani copywriter che ronzava intorno a Milano Poesia, Salone del Mobile, e quadrilatero della moda. Baleri mi chiama e mi chiede se voglio provare, max 1500 caratteri.

La sera stessa, come tutte le sere, sono dietro il bancone del bar delle ex carceri, a Bergamo Alta. Già sul tardi entra un ragazzo che conoscevo fin da bambino, Ale, biondo, occhi azzurri, sempre stato un leader nelle bande dei ragazzini di quartiere.

Quindici anni dopo, quella sera al circolo, Ale era già da anni rovinato, tossicodipendente, alcolizzato, ma era ancora un bambino curioso, e così, quando mi chiede – che problemi hai stasera scrittore? – glielo dico, gli dico – devo inventare una favola per bambini.

E lui, guardandosi allo specchio – lo specchio della birra Tennent’s – comincia – c’era una volta un bambino con gli occhi blu.

Poco dopo, al secondo giro di birre, era arrivato il Rosso. Poi era arrivata lei, Mery, che da ragazzina andava spensieratamente con tutti, una vera bomba, diabolicamente bella, e a un certo punto, diventata donna, si era ritrovata prostituta, alcolizzata e tossicodipendente.Io spillavo birre a ruota.

La creazione della favola era diventata un lavoro d’equipe.

Chiuso il bar, alle tre di notte avevamo proseguito il brain storming sulle panchine delle mura venete, con una cassa di Ceres, sul prato dell’ultimo bastione.

C’era anche il mio collega barista, P., discendente di Simone Pianetti, detto Pacì Paciana, il brigante della Val Brembana, e anche un certo M., che chiamavamo “Ritardo”.  Ricordo che fummo anche controllati da una pattuglia dei Carabinieri.

Fu in quell’occasione che Ale, il bambino con gli occhi blu, alla domanda fendente del maresciallo “Mai avuto problemi con le droghe?” rispose con la spettacolare volèè “no, mi sono sempre trovato abbastanza bene”.

Nel frattempo Mery faceva gli occhi dolci, e cercava di prendere per mano i due Carabinieri dicendo “il verde, il colore più bello è il verde”.

Maresciallo e brigadiere si erano scambiati uno sguardo e avevano deciso che potevano anche lasciarci perdere. In fondo non stavamo facendo niente di male (a parte creare un brand nel settore lusso).

La mattina dopo, uscito dai fumi del doppio malto, avevo buttato giù la favola dei colori, l’avevo mandata a Baleri, Baleri ne era rimasto entusiasta, Imelde e Stefano Cavalleri, i titolari di Pinco Pallino, anche loro entusiasti, le pr entusiaste, la Sozzani entusiasta, tutti entusiasti.

E in breve la favola dei colori diventa una favola-brand, il manifesto dei bambini di lusso, la si ritrova in tutte le occasioni mondane, viene recitata da Lella Costa, e sfilate, eventi, mostre, iniziative, convegni, congressi, cultura, beneficenza e catering tutto di altissimo livello, e per anni leggo che Pinco Pallino realizza fatturati record e apre nuovi “negozi-favola” in tutto il mondo, mentre io, l’autore della favola, faccio il lavapiatti, e crepo di fame ignorato da tutti.

Cos’è successo? Mi hanno tagliato fuori dalla favola, un classico, il giorno prima mi amano come un figlio, il giorno dopo mi considerano un uomo morto.

Avrai fatto qualche cazzata delle tue? Beh, si, certo.

Sull’onda dell’entusiasmo  i Pinco Pallino mi avevano chiesto di scrivere la loro storia come un romanzo, e io, dopo aver inquadrato i personaggi, avevo cominciato a scrivere, ma per sbaglio gli avevo mandato la versione top secret, quella vera, che scrivevo per me, e iniziava descrivendo i due stilisti-committenti con queste parole: “E’ chiaro che lui da bambino giocava con le bambole, mentre lei torturava i gatti”.

Risultato: si offendono a morte, mi mettono sulla lista nera, e mentre la favola aziendale vola, il team creativo affonda, una storia tipica, e in questo caso anche tragica.

So che Mauro “ritardo” è finito in una comunità di mistici. Pianetti, l’ultima volta che l’ho visto, passava le notti all’Accademia del biliardo.

Ale, il bambino dagli occhi blu, se n’è andato pochi mesi dopo quella serata da favola, di overdose, come nella favole nere.

Mery, la bambina dai capelli rossi, l’ha raggiunto qualche anno dopo, di cirrosi.

Il Rosso pensava di avere l’influenza, è andato a fare degli esami, non è più uscito.

Ma non è una favola triste, per me, che li ricordo bambini correre insieme su quel prato.

C’era una volta un bambino blu innamorato del blu che aveva tutti i vestiti blu, tutti i giocattoli blu e anche gli occhi blu.

Un giorno incontrò un bambino rosso innamorato del rosso che aveva tutti i vestiti rossi, tutti i giocattoli rossi e anche i capelli rossi.

È più bello il il blu – diceva il primo bambino.

È più bello il rosso rispondeva l’altro.

Così passavano intere settimane a discutere, quasi a litigare.

È più bello il blu, è più bello il rosso, finché un bel giorno arrivò una bambina con gli occhi blu e i capelli rossi, la gonna blu e la maglietta rossa.

Qual è il colore più bello? – le chiese il bambino dai capelli rossi facendole una carezza sui capelli rossi.

Qual è il colore più bello? – le chiese il bambino dagli occhi blu guardandola negli occhi blu.

La bambina disse: venite con me.

Li prese per mano, li portò in un bellissimo prato e disse:

il colore più bello è il verde.

(Leone Belotti, copyright 1993-2013, in memoria di Ale, Mery e il Rosso).

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 8

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8 ghost writing – scrivere nell’ombra

 Nel frattempo continuo a lavorare come copy, soprattutto come ghost copy, per architetti, imprenditori, designer, sociologi che tengono rubriche o scrivono prefazioni.

Per darti un’idea, un noto professionista che viaggiava molto teneva una rubrica su un periodico prestigioso, mi dava materiale di seconda mano dai suoi viaggi di piacere (le brochure che prendeva nei musei, senza visitarli) che io trasformavo in viaggi nella cultura, costruivo cinque cartelle di fumo, lui le leggeva, segnava degli “Ok” a margine, in base a questi “Ok” confezionavo due cartelle “Ok” e prendevo le mie duecentomila lire.

Alla fine, se le p.r. hanno lavorato bene, l’editore può pagare anche due milioni per l’articolo del noto professionista.

Ti ricordo che un collaboratore-giornalista, per queste due cartelle, in quegli anni prendeva ventimila lire.

Questo per invitarti a riflettere sulla merce-comunicazione: la stessa quantità di merce viene pagata uno al reporter, dieci al copy, cento all’imprenditore-pubblicitario-p.r.

A te le riflessioni sui reali rapporti di forza tra informazione, linguaggi creativi e finanza.

Crisi.

Il ghost writer in realtà eroga una prestazione di tipo sessuale, può essere una marchetta last minute (una prefazione, un discorso, una replica) o un rapporto di concubinaggio continuativo per mesi o anni (una tesi, un libro, una rubrica fissa, o anche un corso universitario, e diventi una specie di ultra-iulm super-tutor per docenti che non hanno tempo o non sanno scrivere).

Il cliente-patron può essere un personaggio dello spettacolo, un professionista (architetti, chirurghi, avvocati), un imprenditore, un manager, un guru.

Il contatto può essere tramite un’agenzia pubblicitaria, un intermediario, una casa editrice.

Ho scritto libri frequentendo “l’autore” in modo quasi familiare con incontri settimanali per periodi anche di sei mesi, con viaggi e vacanze di lavoro in yacht,

ma anche libri interi senza mai uscire dal mio bunker e senza aver mai parlato né conosciuto “l’autore”, ma interfacciandomi con l’agenzia, o l’editore, secondo un timing stabilito (progetto, anticipo, struttura, prima stesura, seconda tranche, stesura definitiva, revisione, saldo) nell’arco di 1-2 mesi.

Altre volte il ghost writer diventa un agente speciale che viene chiamato per le mission impossibile, riscrivere la presentazione di un progetto, un manifesto d’intenti, una proposta di legge, un codice deontologico, un cartello di sponsor, un sito istituzionale …

diciamo qualsiasi cosa che per un qualsiasi motivo richiede  un intervento anonimo, immediato, risolutivo.

Di fatto il rapporto tra il ghost e il committente, esattamente come quello tra una donna di piacere e il suo cliente, è destinato a rimanere clandestino e a interrompersi.

A un certo punto la figura del ghost diventa troppo invasiva, a livello psichico, per il cliente, che inconsciamente si sente questo nuovo cordone ombelicale da tagliare.

Anche il ghost, a un certo punto, quando ormai ha perfezionato lo stile di scrittura su misura del cliente, e si rende conto che ormai quell’autore virtuale è presente come un alien, desidera liberarsene.

Quindi difficilmente, facendo il ghost, arrivi a emanciparti da prostituta a moglie, cioè a figura dichiarata e contrattualizzata a tempo indeterminato.

Proprio come quello di una cortigiana, il menage del ghost professionista è quello di chi ha tre o quattro clienti fedeli, più qualche chiamata per prestazioni superiori.

Crisi.

 

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 7

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7 paraletteratura giallo-nera – il mito del concorso letterario

 Conversione alla para-letteratura: abbandono le lezioni di Brioschi per quelle di Spinazzola, in un paio d’anni leggo qualche centinaio di romanzi, l’opera omnia di Ed Mc Bain (quasi cento titoli), Nero Wolfe, Donald Westlake/Richard Starck, Simenon, Scerbanenco, Highsmith, Follet, Cussler, Smith e altri.

Nel 1993 mi lego alla sedia come l’Alfieri e in un mese scrivo un romanzo giallo: è la storia movimentata di un sequestro di animale a scopo d’estorsione, protagonista è il barboncino di Liz Taylor, sottratto a  Zeffirelli che lo portava all’aiuola da due sequestratori-motociclisti. Lo mando al premio Tedeschi-Mondadori per il miglior giallo inedito dell’anno.

Vincitore risulta Carlo Lucarelli (allora semisconosicuto) ma “la giuria segnala inoltre”, e c’è il mio nome, e quattro righe di elogio al mio romanzo.

Scrivo al direttore del Giallo Mondadori: “Siete il più grande editore italiano, mi state dicendo “Bravo” perché ho scritto uno dei due migliori gialli italiani dell’anno e non mi fate vedere nemmeno una caramella?” Nessuna risposta.

Crisi.

Vedo per strada Oreste del Buono, lo fermo, gli rifilo il mio giallo, lo seguo, scopro dove abita, dopo una settimana di appostamenti sotto casa sua lo rivedo, gli chiedo, è molto cordiale, mi dice che l’ha letto, gli è piaciuto, e dunque ha passato il mio libro a suo nipote, e chi è suo nipote? E’ l’editore Baldini&Castoldi. Telefono a Baldini&Castoldi, chiedo del nipote di OdB. Dopo varie chiamate mi rispondono con una certa malagrazia di non molestare gli anziani.

Crisi.

L’unico risultato della partecipazione al concorso del Giallo Mondadori è quello di essere finito in so quale mailing list, sta di fatto che mi arrivano nella posta inviti a partecipare a concorsi letterari vari, città di Cattolica, città di Cefalù, città di Vattelapesca, insomma concorsi per autori di racconti o di gialli o di neri o di qualsiasi altra cosa. E chi presiede la giuria di questi concorsi? Carlo Lucarelli.

Crisi.

Non mi scoraggio, e l’anno seguente partecipo nuovamente, con un nuovo giallo, d’intonazione comica, alla maniera di Westlake, che devi mandare in cinque copie a tue spese, ricevuta di ritorno,  mesi di attesa, finché un bel giorno vedo in edicola un giallo Mondadori con la fascetta “vincitore del premio miglior giallo italiano”, all’interno trovo il comunicato della giuria, con in calce la dicitura: “la giuria segnala inoltre quale secondo classificato il romanzo di Leone Belotti…” . Non ci credo. Deja vu. Secondo classificato per il secondo anno di fila.

Crisi.

Non mi scoraggio, peggio, impazzisco: partecipo per la terza volta, e dal momento che si può concorrere con più opere, gliene mando cinque, nuovi, scritti di getto al ritmo di uno al mese, in cinque copi l’uno, venticinque tomi, anche una certa spesa in copisteria. Risultato: nessuna menzione. In totale 7 gialli in 3 anni, centinaia, forse migliaia di fotocopie, in cambio di 2 menzioni.

Crisi.

Consolati, mi dice un amico, c’è chi passa la vita a fare fotocopie, e nessuno lo menziona.

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 6

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6 paraletteratura misticai misteri del ghost writing 

Per caso, rispondendo a un annuncio, entro in contatto con una maga-veggente alta, bionda, mezzo croata e mezzo tedesca, e di mezza età, di stanza alla libreria esoterica di Milano, dove si ritrovano tutti i mistici e i new age.

Questa signora mi trascina in giro per Milano continuando a parlare, e mi chiede di scrivere il suo libro mistico con promesse di fama e denaro.

Mi metto all’opera, poi non vedendo soldi comincio a pressarla, allora lei mi dirotta sulla figlia che è la sua amministratrice.

La figlia mi riceve in un superattico del centro, più bionda più alta e naturalmente più giovane della madre, davvero una bomba, accessori lusso ovunque.

Io nella mia ingenuità non mi rendo conto che sto parlando con una squillo d’alto bordo che parla col linguaggio del corpo, tengo duro e alla fine la  puledra s’imbizzarrisce e scalpitando per l’attico tira fuori dal bovindo un portagioie, e dal portagioie una mazzetta arrotolata di banconote. Dollari.

Mi chiede se so quanto è il cambio, in un battito di ciglia sputo la cifra, lei mi dà di più e mi sbatte fuori.

Convinto siano finti vado subito al botteghino del cambio che una volta era in corso Vittorio Emanuele a Milano. Erano veri.

Quando qualche settimana dopo vado a cercare la maga per consegnarle il libro finito, non la trovo, è sparita.

Così torno dalla figlia, sparita anche lei, sparito anche l’attico (era un residences in affitto settimanale).

Affido il manoscritto alla libreria esoterica.

Con mia grande sorpresa qualche mese dopo ripassando vedo il libro in vetrina, vedo anche la maga, la seguo, la fermo, ma incredibilmente lei finge di non conoscermi, e io apprendo la dura lezione del ghost writer:

finito il lavoro, non sei mai esistito.

Crisi.

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 5

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5 letteratura giovanileil mito dell’esordio letterario

Nel 1989 seguo alla Statale di Milano un corso di Brioschi sul Laboerintus di Sanguineti, mi colpiscono in particolare  le “Composte terre in strutturali complessioni” e mi colpisce soprattutto una morettina col baschetto-frangetta tipo Valentina by Crepax.

Per fare colpo su di lei comincio a scrivere brani di prosa poetica sperimentale.

Sono dei racconti brevi, sgrammaticati, senza punteggiatura. La morettina apprezza e incoraggia. Scatta l’ignoranza, mi metto a scrivere compulsivamente.

Compro tutte le riviste di letteratura underground e d’avanguardia, vado a Bologna alle prime riunioni Luther Blisset, studio scientificamente indirizzi, nomi, referenze dei cosiddetti piccoli editori (dove spesso si nascondono i grandi editor).

Poi la morettina dice: ho parlato con il mio fidanzato.

Crisi.

Invece viene fuori che anche al suo fidanzato piacciono molto i miei racconti, e anche al padre del suo fidanzato, che è un noto pittore amico di un pittore notissimo, al quale pure sono piaciuti molto i miei racconti, tanto che li ha dati a un suo amico, un piccolo editore molto chic, Corpo10, che pubblica testi di “prosa poetica” di autori come Pagliarani, Porta, Pontiggia, Majorino, Roversi, Tadini.

Corpo10 ha sede in una libreria in via Messina, ritrovo di pittori, scrittori, designer, architetti. Il patron di Corpo10 è Michelangelo Coviello, egli stesso poeta, copy e romanziere. Una sua raccolta si intitola “Dobbiamo vendere il cielo”.

Dunque, senza nemmeno averglieli mandati, incontro questo editore interessato ai miei racconti.

Mi dice che i miei racconti sono molto belli e dunque ha intenzione di pubblicarli. Devo solo dire di sì. Come nei film.

Emilio Tadini disegna la copertina, il libro si intitola “nylon verde”, 1991, Corpo10, lire dodicimila. Viene presentato a Radio Popolare, in librerie di Milano e Bologna, alla fiera dei piccoli editori al castello di Belgioioso, vengo invitato a Milano Poesia.

Avere meno di 25 anni, e un tuo libro con il tuo nome in vetrina nelle librerie più prestigiose, ti fa credere certamente di essere il più grande giovane scrittore italiano.

Da questa illusione giovanile, di cui tanti siamo rimasti vittima in ogni settore creativo, dalla fisica nucleare alla canzone popolare, derivano anni e anche decenni di delusioni.

Per cominciare, nel mio caso: scrivo altri racconti per il mio secondo libro, e sono racconti illeggibili, e impubblicabili.

Nel giro di un paio d’anni l’etichetta Corpo10 cessa le pubblicazioni.

Vengo invitato a ritirare le copie del mio libro a duemila lire l’una. Indignato, rifiuto, e abbandono il mio libro al suo destino (il macero).

Crisi.

Quasi vent’anni dopo ne trovo una copia stropicciata in una libreria ramainders, al prezzo di 3 euro, e dopo averci pensato a lungo (avevo in tasca 5 euro e una sigaretta, e il bancomat fuori uso causa rosso estremo) la compro.

Mi chiudo in casa, mi preparo un bagno caldo, mi verso mezzo bicchiere di Laphroig, mi accendo la mia bella sigaretta e comincio a leggere.

Crisi.

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 4

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4 copy writing junior le parole come merce

Vedo il film “Cocktail” con Tom Cruise, mi identifico, lascio i disabili e faccio il barman.

Sfruttando nuove doti che non sapevo di avere  (come in seguito mi disse un vecchio art director: “avere la lingua lunga aiuta a leccare il culo”) mi agito nella Milano da bere finché una minorenne maggiorata mi invita a casa sua dove mi presenta i suoi, una coppia di architetti-imprenditori.

Nella loro villa con parco potevi incontrare gente con la barba che ti sembrava mandata dai servizi sociali, invece erano grandi architetti internazionali o designer in procinto di diventare grandi star, come Philippe Starck.

Vengo invitato, a suon di bigliettoni da centomila, a scrivere testi poetici relativi agli schizzi dei barboni. Questi schizzi raffigurano sedie e tavoli.

Inizia la mia carriera di copy writer nel settore design. Nel giro di un paio d’anni il barbone con la pancia, Philippe Starck, è miliardario. Il copy no. Ma ormai il seme è gettato.

Crisi.

Il mio ruolo è copy junior, passo due giorni alla settimana in questa agenzia-studio, ultimo piano palazzo liberty Milano centro, una decina di stra-fighe (receptionist, pr, grafiche) il boss fighissimo e il suo braccio destro gay, l’art director, che di fatto è il mio capo.

Un bel giorno a una tavolata snob di vip vari (con stilisti gay) si parla di diete, il mio capo mi provoca dicendo che anche io dovrei tirar giù un paio di chili di pancetta, io da perfetto idiota nel gelo generale rispondo “lascio questi problemi al sesso debole”. Licenziato.

Crisi.

 

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 3

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3 giornalismo dilettantelo scontro col potere

Nei successivi otto anni di medie e liceo non scrivo più niente e nemmeno leggo niente (prima divoravo un corsaro nero ogni due giorni) a causa di un trauma educativo occorsomi nella mia prima e unica esperienza di vacanze estive in colonia di mare, a Milano Marittima.

Invece di giocare con gli altri ragazzini, mi isolavo in pineta a leggere, quando ecco che mi ritrovo circondato da una folla inferocita di bambini e suore.

“Eccolo! E’ lui!”. Mi portano dalla madre superiora. Mi accusano del tutto assurdamente di aver spinto un bambino giù dallo scivolo (dalla parte della scaletta). Il poveretto si è rotto un braccio.

Io non c’entro per nulla, ma ben tre stronzetti testimoniano e giurano contro di me (in precedenza, a tutti e tre avevo detto, non sbagliandomi: “tua mamma è una puttana”).

Ricordo perfettamente le parole della madre superiora:

“oggi la spinta, domani il pugno, a sedici anni il coltello, a diciotto la pistola e la droga, è questo che vuoi diventare, bugiardo e assassino?”

Con entusiasmo avevo risposto: “Si!”.

Ero stato condannato a esser rinchiuso nel sottoscala a leggere Moby Dick alla luce di una lampadina.

Passai le tre settimane rimanenti nel sottoscala, senza leggere una pagina.

Dopo un mese al mare tornai a casa più pallido di com’ero partito, e traumatizzato.

Per otto anni non avrei più letto un libro né scritto una parola se non per dovere scolastico.

Alle medie e alle superiori sono uno studente modello, ottimo alle medie e 60/60 alla maturità con un tema su Juve-Liverpool, finale di coppa campioni giocata a Bruxelles e finita in tragedia per il crollo di una tribuna con un centinaio di morti.

Ricordo l’attacco ultra-retorico: “A Bruxelles è morta l’Europa…”

Nello scantinato nel Liceo Lussana, insieme al compagno Lori fondiamo la “cellula comunista” e stampiamo a ciclostile un foglio dal nome “Segnali di fumo”.

Nell’intervallo mi rivolgo a tutte le ragazzine più carine presentandomi come caporedattore di “Segnali di fumo” e chiedendo un’intervista sull’uso della pillola anticoncezionale.

In un articolo chiedo ufficialmente alla scuola di acquistare pillole e renderle disponibili gratuitamente. Come rappresentante degli studenti, faccio la stessa richiesta in consiglio d’istituto.

Dopo due numeri il preside scopre che le riunioni serali nello scantinato sono diventate un ritrovo di fumatori di hashisc (“Segnali di fumo”), e ci fa chiudere.

Ho idea di studiare matematica, vengo selezionato per la Normale, ma nel corso dell’estate riscopro il piacere della lettura: sono in vacanza con mio zio, sacerdote e cacciatore, io e lui in camper a dire messa in lande slave dimenticate da Dio, unico libro sul camper: “Paludi” di Gide. Una folgorazione.

Decido di iscrivermi a Lettere, Statale di Milano, con l’obiettivo di guadagnarmi il pane scrivendo.

Crisi.

Nel frattempo, me ne vado di casa, e mi mantengo lavorando come educatore disabili.

Creo un giornalino “In carrozza!” con resoconti comici delle disavventure quotidiane, stile “quasi amici”, organizzo corse per carrozzelle nella piazza ovale tipo “palio di siena”, e in generale azioni sovversive in luoghi pubblici, e tutto per avere qualcosa da scrivere.

Con la complicità della mamma di un disabile, faccio entrare nottetempo prostitute nel ricovero. Grande divertimento ma gli psicologi comunali non gradiscono.

Crisi.

Mi spostano sui bambini del campo estivo, ed io metto in piedi una nuova redazione di trenta bambini di 6-7 anni. Sul primo numero titolo e apertura con i lamenti dei bambini per la mancanza di fondi del campo estivo.

Quindi organizzo dei blocchi stradali nella via centrale del centro storico (oggi isola pedonale) con i bambini che chiedono una contributo agli automobilisti per un gelato collettivo.

Grande successo di pubblico e grande divertimento dei bambini, ma ancora una volta “i grandi” non gradiscono, e stavolta mi licenziano.

Crisi.

(imago by Monica Marioni)

il cane della suocera

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zoe

(con la rubrica Psicanile inizia la sua collaborazione con UpperDog il Dr.Prof. UpperDoc Max Rebelòt)

Peggio della suocera, c’è il cane della suocera.

Sia che la suocera sia del tipo dominante-tirannico, che del tipo dominante-occulta, il cane della suocera ne sarà la copia dominante a quattro zampe;

ricordate, amici degli animali: potete tenere il muso alla moglie o  fidanzata, ma non alla suocera, e tantomeno al cane della suocera,

bestie che dovrete sempre riempire di complimenti, attenzioni e chiacchiere.

In base alla mia doppia specializzazione, in problemi di coppia e psicologia animale,

c’è solo una cosa da fare con la suocera, e quindi col suo cane, e comunque in ogni conflitto relazionale (sia parentale che animale) nel quale sareste destinati a soccombere, e cioè: leccare il culo, leccare il culo e leccare il culo,

leccare il culo alla suocera, ma anche leccare il culo al cane della suocera,

l’importante è tenersi sempre in allenamento e sviluppare adeguate performance linguistiche:  avere la lingua lunga, infatti, come si può arguire, aiuta a leccare il culo.

Quindi fate attenzione, mai ignorare o insultare il cane della suocera (capisce perfettamente) o addirittura cercare di sottometterlo:

vi ritrovereste a guardare la tv su uno sgabello mentre lui occupa per intero il divano, e non potrete farci niente per il resto della vostra vita coniugale.