spaghetti al dente avvelenato

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Il fatto: Alias pubblica una special edition della Spaghetti Chair, con dimensioni stravolte e dunque impressioni spiazzanti, con effetto d’alienazione;

l’antefatto: la Spaghetti Chair è un must del design made in Italy, e per molte ragioni, tecniche e culturali, legate all’atteggiamento mentale, ironico, e affettuoso, su una forma/funzione pop e un materiale banale che segnò un’epoca;

il postfatto: dal suo profilo fb, Enrico Baleri, che nella nascita della Spaghetti ha avuto una parte non secondaria, lancia strali ferali, evidentemente ferito, indignato, e si erge a difesa della memoria del designer della Spaghetti, il compianto Giandomenico Belotti…

allora, Enrico, il tuo furore è sincero, ma improprio: ti tranquillizzo, sono anche io un Belotti di Grumello del Monte come il grande Giandomenico, e qualora si fosse levato nella tomba sarei stato il primo a percepirlo: invece lo sento sghignazzare, e non per l’oltraggio perpetrato da Alias, ma per la tua ira funesta…

Sei tu l’oltraggiato, non Belotti, che della Spaghetti è stato il papà, mentre tu sei stato la mamma, e oggi da mamma italiana tiri fuori le unghie: non toccate il mio bambino!

Penso che se gli Alias men ti avessero chiamato, consultato, corteggiato, spiegandoti il senso dell’operazione, forse lo avresti anche condiviso: e l’operazione parla da sé, evidentemente è un omaggio alla Spaghetti in quanto classico, non modernizzabile, però ironizzabile…

Lo stravolgimento dimensionale, l’iperbole de-funzionale, se ci pensi dice proprio questo: la Spaghetti non si tocca, progetto perfetto, e la sua perfezione viene proprio dalla sua curiosa armonia longitudinale, mai vista, inedita e unica.

Perché, diciamolo, la Spaghetti è sproporzionata di suo, da progetto, è questa la sua caratteristica che oggi viene presa in giro, e omaggiata.

L’operazione Alias non mi pare un furbata commerciale con effetti deleteri, come lo sono molte operazioni del genere “make it big”, e penso ad esempio al Vasone che qualche anno fa ha invaso ogni garden o cortile italiano,

si tratta invece di un gesto, forse anche irriverente – come è destino delle icone classiche che resistono alla modernità, a partire dalla Monna Lisa “duchampata” – per richiamare l’attenzione sulla Spaghetti. Questi pezzi unici, variazioni non destinate alla produzione seriale, non recano alcun danno alla versione originale, anzi, ne sono uno spot, forse un test di rilancio…

Il mio dubbio, in questi casi, considerate le dinamiche perverse della comunicazione, è questo: che la polemica pepata pompata da Baleri si riveli utile all’operazione Alias più che qualsiasi consenso o plauso,

e questo vorrebbe dire che tu, Baleri, sei cascato nel classico trabocchetto che il sistema spalanca ai giovani e ingenui sovversivi, i famosi “utili idioti” (absit iniuria verbis).

Al punto in cui siamo, prima che la polemica degeneri nell’inciviltà, consiglio agli Alias di invitare Baleri come special guest alle presentazioni della special edition, e a Baleri di cogliere l’occasione per raccontare la vera storia della Spaghetti, senza dimenticare il ruolo di Emilio Tadini nella scelta del nome Spaghetti, che ha fatto la fortuna del prodotto: eppure eravate indignati e infuriati all’idea di darle un nome così Little Italy!

Un nome imposto dalla lobby che ha finanziato il progetto, perchè voi, denotando scarsa cultura marketing, e anche scarsa cultura tout court, volevate chiamarla Odessa! E in quel caso dalle tombe si sarebbe levato non uno, ma intere schiere di morti…

E poi, se proprio vogliamo tirare fuori le offese fatte alla Spaghetti, perchè non parliamo della oscena proposta, avanzata ai tempi dal simpatico Montezemolo, di farla più larga, cioè più facile per venderne di più, privandola così del suo vero tratto d’identità e unicità, quella sproporzione che la rende bella e per sempre attraente perché diversa da ogni altra sedia: quello sì che è stato un tremendo insulto al progetto, e al genio del Belotti!

 

in gamba

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inevitabile, nella mia condizione: in 70 giorni ho contato oltre 200 battute “in gamba!” fatte da amici, o anche gente incontrata per strada.

Portare in giro una gamba rotta è come avere il cane, la gente ti chiede che razza è, quanto ha, si sente libera di parlarti,

questo forse è dovuto anche alla visibilità scenografica della mio gamba-attrezzata, con tecnologia a vista tipo reggicalze composta da cinghia portalibri verde militare che assicura il tutore a un cinturone di cuoio allacciato obliquo in vita, pistolero style

(questa tecnologia permette al tutore di restare in posizione, senza bisogno di stringerlo troppo, e soffocare cute e carni)

ma quello che più attira attenzione e commenti è la funzione porta-oggetti:

il problema degli stampellati è che non hanno le mani libere, dunque hanno bisogno di avere a portata prensile gli oggetti di uso quotidiano.

Parliamo in realtà del problema maschile del rifiuto della borsetta, anche in versione borsello maschile, o marsupio-tracolla;

come mi ha spiegato una volta in treno una top-commessa di Prada-Milano, mentre la borsetta viene naturale alle donne, essendo un contenitore-metafora della vagina che accoglie nell’intimità (nei suoi vari tagli, dalla shopping alla pochette), gli uomini, abituati alla presenza di attributi esterni, preferiscono tenere tutto in tasca (chiavi, telefono, portafogli) cioè a portata di mano, e sguainabile, come gli attributi.

Io ho effettivamente provato per alcuni giorni a usare un marsupio a tracolla, ma con effetti psicologici inaccettabili, sia di regressione all’infanzia – quando mettevo la cintura di pelle nera di mio padre a tracolla sul pigiama per diventare Zorro – e sia di auto-percezione come turista-pacifista gay, e d’altra parte ho sempre reputato il marsupio a tracolla inadatto, inelegante per i tipi fisici come me, dotati di bogetta.

Non prendendo nemmeno in considerazione l’idea del marsupio in vita,

ho così cominciato a usare il tutore come contenitore, come portaoggetti, sfruttando le numerose cinghie come ancoraggi.

Nella foto, in gamba:

> occhiali da vista Bugatti con microchip-memoria nelle stanghette, avuti in cambio di una recensione che non ho mai scritto, in uso da 10 anni,

> il telefono Nokia, che pure ha fatto il decennale

> in giallo, due classici dell’industrial design, l’evidenziatore Stabilo  e l’accendino Bic.

> in blu prussia, penna Lamy avuta in cambio di una recensione che non ho ancora scritto

> sull’esterno polpaccio, due punture anti-trombo (19 battute tematiche) che devo farmi ogni 24h per prevenire problemi di trombosi.

fuori gamba:

> portacenere glass union jack  (fumo di londra!), da amica cantante,

> libro “a mano armata”, biografia di Giusva Fioravanti, da amico bergamo bene città alta,

> catalogo mostra Boldini, da bella donna che sembra un ritratto di Boldini

> tavolino florian by baleri-baroli, avuto in cambio di una recensione che non ho mai scritto (più di 20 anni fa, estensibile a pressione, e funziona ancora: e come mi disse un gigante del pensiero tecnico “se qualcosa funziona ancora, è sicuramente fuori produzione”)

> alla base di tutto, pavimento floreal 1899, miracolosamente scampato negli ultimi decenni ai grandi virus di ristrutturazione design (open space e parquet).

fuori foto:

> nella mano destra, libro di F.Pessoa “una sola moltitudine”, con illuminazione, non visibile, sul sentimento della moltitudine, che è simile e speculare alla solitudine, e colpisce i misantropi costretti alla compagnia umana.

(photo Riganti)

 

 

la pilsner, la ipa e lanik

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lanik

(ceca di sera, all’alba diventa scozzese, e a mezzogiorno italiana)

appartengo al target “piccola borghesia – grande apatia”,

vittima delle mode culturali e delle tendenze/stili di vita,

passato decenni a far finta di farmi la cultura del vino,

adesso ci tocca la cultura della birra…

* * *

io di formazione birraia pub anni 80

la mia è la ceres generation, poi tennent’s

ma anche le rosse chimay, adelscott, john martin

e anche tante moretti prese al supermercato

e più in basso le extra-strong sottomarca,

superalcol facile da zuccheri aggiunti

e nausee al termine della notte…

* * *

poi sono arrivate le birre artigianali

la scoperta del luppolo, dell’amarezza,

della birra non trasparente, non freddissima,

e nemmeno molto gasata, e spesso

nemmeno troppo alcolica

ma in compenso

carissima!

* * *

poi ti spiegano, capisci, e approvi

il procedimento naturale, niente estratti,

niente conservanti chimici, niente coloranti,

e alla fine queste scelte si tramutano in costi:

il luppolo in quantità costa, il malto di qualità costa,

il procedimento naturale è lungo, manuale, dispendioso,

alla fine una birretta da 33 da asporto mi costa 5 euro,

20 volte una lattina del discount di pari gradazione…

* * *

curiosamente dunque il prodotto sostenibile

si rivela insostenibile economicamente

non diversamente dalla carne bio,

dovresti limitarti a una bistecca

alla settimana, e una birretta…

* * *

e dopo un po’ la vera domanda è psicologica

ci chiediamo cioè se questo nuovo gusto

ce l’abbiamo davvero, o siamo solo

suggestionati da riti e liturgie

* * *

a questo proposito riferisco di un test

che mi è capitato senza premeditazione:

un amico mi porta un cartone di birre senza etichetta…

oggi sei circondato da amici che conoscono e ti procurano birra

proprio come anni fa c’erano spacciatori di vino ovunque…

* * *

(parentesi vintage/alla ricerca del tempo perduto:

e pensare che mi ricordo la prima rivendita

di vino sfuso a Bergamo, vini pugliesi

in zona piazza Pontida, erano

vini di Trani, da cui il modo

di definire quei piccoli bar

per avvinazzati, i “trani”

“l’è propre un trani”)

* * *

veniamo al test, ferragosto in città

in seguito al mio appello “disabile cerca

cibi pronti a domicilio” ecco una cena luculliana

dopo divorato salumi e antipasti, contorni e arrosti

e dopo bevute due bocce di bollicine perfette Faccoli

e una di rosso Tenores da 16,5% incredibilmente selvaggio

a pancia satolla mi viene in mente il mitico epulone Nero Wolfe

che a fine pasto, a tavola sparecchiata, si faceva due birre, per digerire

e così ingollo due di quelle bionde leggere prese dal cartone senza etichetta,

e mi sembrano senza dubbio delle ferrose Pilsner boeme, Urquell o Budweiser.

* * *

ma il giorno dopo, a mezzogiorno, a stomaco vuoto,

ne bevo un’altra allegramente, e mi pare tutt’altro,

non che mi sembri più forte di una Pilsner,

ma più luppolata, è una IPA luppolata,

magari una Elav, forse la Stakanov…

* * *

infine la terza impressione, solitaria,

12 ore dopo, leggendo e bevendo, e fumando,

e ascoltando bela bartok,  e i pensieri della notte,

improvvisamente, con certezza, so che sto bevendo

una delle mie birre preferite, la IPA Brewdog,

la famosa lattina da 33cc a 5 euro…

* * *

chiamo l’amico e glielo dico,

ma lui risponde: no, la birra che

hai bevuto era la nuova bionda leggera

di Elav, e come si chiama, si chiama “lanik”.

* * *

questo non è il resoconto di una degustazione da esperto,

questo è un test sul consumatore mediamente ignorante, che sono io,

e mi rendo conto che in situazione d’ignoranza media le condizioni contingenti

risultano decisive: a pancia piena, a stomaco vuoto diurno, da meditazione notturna,

e anche la modalità, ingollata dalla bottiglia è una Pilsner industriale,

invece nel bicchiere giusto, con la sua schiuma e la sua opacità,

era una birra artigianale italiana, e al buio era una scozzese…

* * *

non contento, e avendone ancora, decido di fare il test

su consumatori ancora più ignoranti di me, e qui apparirò scorretto,

la faccio provare a due amici, una ragazza e un marocchino, analfabeti

in fatto di birra: entrambi non sono ancora “entrati” nel gusto/vizio del luppolo

bevono solo bionde industriali, e ogni volta che ho provato a far bere loro birre

artigianali ho avuto reazioni negative, come fai a bere quella roba qui, non è buona:

sorpresa, entrambi dicono “buona”, finalmente una birra normale, che “sa di birra”

si, un “pochino amarina”, ma si può bere, anzi, “quasi quasi mi piace”…

* * *

a questo punto chiamo Antonio, il birraio che ha generato lanik,

e gli dico: bravo, hai realizzato il classico prodotto d’accesso,

“lanik”  è esattamente la birra da far bere agli scettici

la bionda non impegnativa, facile, sorridente,

confidenziale, e sottilmente seducente

* * *

e vorrei anche dirgli:

essendo un prodotto d’accesso

dovrebbe avere un prezzo accessibile!

Ci sarà pure un modo perchè voi facciate birre

più economiche, o la grande industria più buone e sane!

Potresti passare la ricetta ai tuoi vicini della Heineken-Moretti!

O diventarne il centro stile! Oppure al contrario farti prestare l’impianto!

E lui con ogni probabilità risponderebbe: allora non hai capito un cazzo, Leone…

(ph. by A.Kaiser)

cosa vuol dire nylon

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cosa vuol dire nylon forse lo sai già, intendo dire proprio la parola nylon,

che è una sigla in inglese (tecnicamente: un acronimo anglofono)

che trascritta in estensione diventa “now you lose old nippon”

e tradotta vuol dire “adesso hai perso vecchio giappone”

[…]

la storia è semplice, 75 anni fa

giusto quando tuo nonno era appena nato,

l’america temeva di perdere la guerra nel pacifico,

pensava di vincere facile con invasioni di paracadutisti,

ma per fabbricare i paracadute servivano tonnellate di seta

e i giapponesi avevano chiuso la via della seta, dunque: che fare?

la guerra scatena il genio, questo accade sempre, da Leonardo

a Nobel, l’invenzione stravolgente non è mai per nobili fini,

poi le invenzioni di guerra si affermano in tempo di pace

e questo succede anche con la nuova seta artificiale

sintetizzata nei laboratori Dupont, e chiamata nylon

forse in origine NYL indicava New York + Londra,

e -ON la desinenza della fibra, come rayon, come cotton,

ma poi qualcuno, scherzando, disse: “Now You Lose Old Nippon”

da quel momento, sebbene apocrifo, quello divenne il senso

dell’acronimo di nylon, e segna l’inizio di  un nuovo mondo

di una nuova tecnologia delle fibre sintetiche artificiali

e la fine del mondo antico, elitario, della seta

[…]

c’è un solo modo per distinguere

un filo di nylon da un filo di seta: lo bruci.

Se si condensa in un pallina, è nylon;

se prende fuoco, è seta.

(photo e testi tratti dacosa vuol dire nylon – la luna e le fabbriche”

2014 by Virgilio Fidanza e Leone Belotti, ediz. fuori commercio Radici Group)

l’acqua di Medju-Gori

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preghiera a san giorgio gori,

mio caro e amato giorgio gori ti prego riapri la fontanella d’acqua potabile in piazza s.anna,

capisco la siccità e il divieto a lavare il suv ma sigillare le fontanelle in questi giorni è davvero sbagliato,

va bene mettere il rubinetto, ma perché sigillare?

Ieri nella mia condizione di disabile ho preso coraggio, in stampelle sono sceso in strada ho fatto il giro dell’isolato sono arrivato in piazza avevo un bisogno assoluto di bere, e ho trovato la fontanella sigillata,

i poveri clochard della piazza mi hanno rivolto uno sguardo, come a dire: hai visto che crudeltà?

I bar della piazza, con le loro bottigliette di plastica a caro prezzo, mi sono sembrati un insulto alla sete, bisogno primario che una città come la nostra ha sempre saputo soddisfare fin da tempi remoti, con acquedotti, sorgenti, fontanili…

L’acqua di Bergamo è sempre stata un’acqua eccellente, denominata col nome del sindaco di turno, buona e fresca, miracolosa,

tanto che ieri, nella morsa della sete, ho avuto questa visione: potremmo anche imbottigliarla come acqua santa,  e chiamarla

l’acqua di Medju-Gori

e dopo una bella sorsata ristoratrice esclamare: wow!

50 sfumature di promessi sposi

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Quello che pochi sanno, è che il Manzoni, oltre che ricchissimo di famiglia e amicissimo del potere, quale che fosse (francesi, austriaci, piemontesi, e lui diventava repubblicano, mitteleuropeo, italianista) era soprattutto un sessuofobico della peggior specie, morboso come un cattolico, bigotto come un calvinista.

Per rendersene conto basta leggere senza paraocchi i brani  sulla Monaca di Monza, l’unica donna  non frigida de I Promessi Sposi, il romanzo che il Manzoni stesso, divenuto Ministro dell’Istruzione del neonato Regno d’Italia, impose come testo obbligatorio in tutte le scuole del regno: un abuso di potere che incredibilmente si protrae ancor oggi!  Ecco che cos’è la famosa ironia del Manzoni!

Ma con la Monaca di Monza (Gertrude, ispirata a un personaggio realmente esistito, Marianna de Leyva, 1575-1650) il Manzoni perde il controllo, e rivela il suo lato oscuro.

Fin dalla prima cosa che dice su di lei, vediamo la condanna (e l’attrazione):

Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista  un’impressione di bellezza sbattuta, sfiorita, direi quasi scomposta.

Subito dopo, si focalizza su occhi e labbra: due occhi neri neri si fissavano in viso alle persone, come un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio. Le labbra spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei e vivi, pieni d’espressione e di mistero.

Descritto l’aspetto, passa a raccontarne tutta la storia di bambina predestinata al convento sino al fatto che segna la sua condanna: quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovane, scellerato di professione. Allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.

Ci siamo, da questo punto in poi il peccato e il piacere sono indissolubilmente legati:

provò una contentezza viva, nel vuoto uggioso dell’animo suo s’era venuta a infondere un’occupazione forte, continua e, direi quasi, una vita potente; divenne tutto a un tratto più regolare, più tranquilla, smessi gli scherni e il brontolio, si mostrò anzi più carezzevole e manierosa.

Si noti il maschilismo darwinista, per cui la donna è creatura che “ha bisogno” del sesso. Si noti la pornografia velata (in quel vuoto s’infonde qualcosa di forte, continuo e potente!) che uno psicanalista riconoscerebbe da quel “direi quasi” ripetuto, come un lapsus. Andando avanti, l’unico problema è capire se il nostro ci sia o ci faccia, cioè se quando scrive che il delitto è un padrone rigido e inflessibile l’allusione porno sia voluta, o inconscia.

L’ultimo brano, con Gertrude che “coccola” Lucia prima di consegnarla a tradimento agli sgherri di Don Rodrigo, “direi quasi” che non lascia dubbi:

Gertrude, ritirata con Lucia nel suo parlatorio privato, le faceva più carezze dell’ordinario, e Lucia le riceveva e le contraccambiava con tenerezza crescente: come la pecora, tremolando senza timore sotto la mano del pastore che la palpa e la strascina mollemente, si volta  a leccar quella mano; e non sa che, fuori della stalla, l’aspetta il macellaio, a cui il pastore l’ha venduta un momento prima.

Capisci perchè poi gli italiani leggono 50 sfumature di grigio? La cattiva pornografia l’hanno appresa nella scuola dell’obbligo.

(testo by Leone – imago by Studio Temp – tratto da l’Osservatore Elaviano n.4, periodico del Birrificio Elav –   tutte le citazioni sono tratte da I promessi Sposi, le prime due da cap.9, la terza da cap.10, le ultime due da cap.20 )

Italcementi sapendo di mentire

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(monologo del vecchio professore, in una classe di Liceo, sventolando alla classe la prima pagina de L’eco con la notizia della cessione dell’Italcement ai tedeschi)

Italcementi sapendo di mentire,

il significato è chiaro e trasparente come il cemento tecnico,

parliamo della più grande azienda del territorio,

parliamo di uno dei più grandi produttori europei di cemento:

dopo aver scavato tutto lo scavabile, inquinato tutto l’inquinabile,

guadagnato tutto il guadagnabile, licenziato tutto il licenziabile,

il padrone vende baracca e burattini, come un impresario da quattro soldi,

e la città degli edili perde la sua materia prima, da un giorno all’altro,

senza che nessuno ne sapesse niente, e sono tutti contenti

perchè andiamo verso il futuro, con la locomotiva d’europa,

e poi qui da noi rimane la fondazione: e questa è la presa in giro,

è la goccia che fa traboccare il vaso, è la ciliegina che ti strozza…

ecco la Repubblica fondata sul lavoro, generazioni di lavoratori che hanno lavorato una vita, e non pochi sono crepati di malattie causate dal lavoro, per rendere il padrone, un solo uomo, ricco in una maniera eticamente e socialmente insostenibile… cose dell’Ottocento…

fosse ancora vivo quel fascista di mio padre, mi sembra di sentirlo: quando c’era Lui, una cosa del genere sarebbe stata impensabile, vendere allo straniero! Azienda espropriata, e nazionalizzata, imprenditore al confino, e la ricchezza prodotta resta dov’è, mentre adesso, dimmi tu cosa farà quello lì con tutti quei soldi che puzzano del sudore di generazioni di lavoratori? Ma quale Repubblica fondata sul lavoro, questa è una Privativa fondata sul gioco d’azzardo!

Ha ragione il vecchio… nemmeno ai tempi degli anni di piombo, però, sarebbe stata possibile una cosa del genere…

No ragazzi,i voi non avete capito quello che è successo,

Carlo Pesenti che vende l’Italcementi per i bergamaschi è una tragedia, perchè fino ad oggi ci avevano sempre parlato delle nostre aziende, delle nostre imprese,  quando c’era da soffrire, da fare sacrifici, erano nostre, quando erano un problema erano nostre, adesso che sono una risorsa ecco che appartengono al proprietario legittimo…

nemmeno un re può fare quello che fa un re del cemento, come se Carlo d’Inghilterra appena salito al trono vendesse l’Inghilterra…

ma la cosa orribile è che si tratta di un messaggio deprimente, di una manifestazione d’impotenza,  è come se dicesse:

non sono in grado di fare l’industriale, vendo, e faccio il finanziere!

capite, immaginate i danni che potrà fare come finanziere uno che non sa fare l’industriale,

perchè adesso con quei miliardi in tasca c’è il rischio che faccia fare alla nostra economia la fine che Moratti ha fatto fare all’Inter, drogata di soldi, investimenti senza idee, senza carattere, senza ambizione, pensando di vincere facile, schiacciando la concorrenza…

e questo  con un governo di sinistra, in una città cattolica che promette pace e solidarietà,

mentre  i sindacati sono troppo impegnati a fare le denunce dei redditi…

e adesso volete sapere cosa c’entra l’Italcementi con la nostra ora di storia e letteratura, benissimo, e allora aprite Dante,  canto VI del Purgatorio:

Ahi , serva Italia….

a Bergamo Bassa c’è vita, perfino culturale

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Da sempre ci si sente dire da amici scienziati: come fai a startene a Bergamo, non c’è vita culturale! Ultimamente anche assessori, immobiliaristi e commercianti lamentano la mancanza di vita a Bergamo Centro.

Controcorrente, vorrei segnalare la presenza di tracce di vita in città, perfino culturale.

Non mi riferisco alla vita culturale istituzionale di consumo (eventi, festival, cartelloni) ma al sostrato, all’humus, al fermento: intendo persone, luoghi, discorsi, incontri, iniziative sperimentali no budget, intendo quella “temperie” che facilmente riscontri e vagheggi quando leggi i diari di Canetti o Zweig sulla Vienna belle epoque anni 10-20, quando alle terme o al caffè incontravi Freud, o Wittgenstein, o Kokoschka, o Karl Krauss; oppure la Parigi fin de siecle, dove potevi trovare Baudelaire in un bistrot, o discutere con Cezanne e Zola, e finire la serata la Moulin Rouge con Boldini e Toulouse-Lautrec e …

Il fatto è che chi sogna di incontrare Baudelaire al bar, quando lo incontra realmente, non se ne accorge nemmeno.

Invece, se hai lo spirito giusto, ovunque, anche a Bergamo bassa, puoi avere una vita intellettualmente eccitante come Krauss a Vienna o Zola a Parigi… cioè, devi fare mente locale… se ad esempio  entri al bar Moderno, classico bar qualsiasi zona Piazza Sant’Anna, ,vedrai un tipo che confabula con altri due: gli sta spiegando modi di dire in dialetto, ci sono improvvisi scoppi di risate,  lui non è un divo, è solo il capo-macellaio della Dimo-car (tipo sanguigno, battute taglienti…), e gli altri due sono writer di note agenzie pubblicitarie, che sbevazzano insieme, però…

Attraversi la strada, e a BgBirra trovi l’editore-birraio de l’Osservatore Elaviano che parla con un vecchio pittore. Appartati, come in cospirazione, ecco gli organizzatori clandestini degli Invisible Show, sotto lo sguardo del capellone secolare delle edizioni musicali Carrara. Ancora più capellone, su uno sgabello, alto e magro come una pertica, puoi vedere un giovane clavicembalista di livello internazionale, che abita qui dietro, e normalmente  è perso nella musica che ha in testa, per cui se lo vuoi salutarlo devi picchiargli dentro. Entra una donna poco appariscente, è un luminare della medicina, gli chiede: cosa bevi? E lui risponde: Bach, Bach padre.

Scendi a prendere il pane,  anche il fornaio, il Vanotti, è nello spirito giusto, ha riempito la bottega di libri in book-sharing, e ogni giorno scrive la sua massima assurda su una lavagnetta.

Il fatto è che a un tiro di sigaretta dalla piazza abbiamo almeno una decina tra redazioni e lab creativi: ti parlo di me, del centro sperimentale di comunicazione Calepio Press e della redazione di CTRL magazine, che ridendo e scherzando mese sì e mese no è segnalato come uno dei magazine più “avanti” a “livello europeo” (wow)

c’è il lab Multimmagine, fucina di video-creativi, e sempre nei pressi ci sono anche le redazioni “regimental” di Qui Bergamo, di Città dei Mille, e anche Cobalto edizioni e anche le millenarie edizioni musicali Carrara… manca giusto L’Eco di Bergamo…

effettivamente potremmo anche montarci la testa e dire che Piazza Sant’Anna è il “distretto del pensiero” di Bergamo Bassa, con relative bassezze:

per esempio a un certo punto in piazza appare la classica donna-pantera che scende dalla Mini a fare il bancomat o a comprare 1 mela una, aggressiva come una bresciana a Milano: è certamente una account del QuiBg o della Città dei 1000, una macchina da guerra capace di stoccare in mezz’ora di moine il 1000 o 2000 euro all’imprenditore per mettere lui, la sua villa e la sua macchina sul magazine patinato, mentre tu che scrivi due romanzi l’anno o i tuoi amici che suonano tutte le sere non riuscite a campare…

insomma, gli stessi problemi che avevano Baudelaire e Cezanne…

Quindi, ragazzi, non state a farvi troppo menate sulla vita culturale, sulla mentalità della piccola città, andate oltre, prendete quel che cola dalla realtà, mischiate con i riferimenti  culturali scolastici, con i grandi maestri morti da secoli, e li vedrete rivivere, e anche la vostra vita prenderà senso…

Se nella tua testa non c’è fermento, se nelle tue viscere non c’è fuoco, è inutile che trascini le membra a Berlino, o a Londra…

La cultura te la crei, te la vivi, o non ce l’hai.

Diceva Gigi Lubrina: tu immagina che la vita sia un romanzo, o un film: vedi uno, gli dici una cosa, e vedi cosa succede. La vita culturale è questa…

Ma questo bel quadretto non ti basta, lo so, tu vuoi un esempio concreto, vuoi la “case history”, vuoi che ti racconti di un qualche progetto divenuto un prodotto culturale vero, di rilevanza e spessore…

Allora ti racconto questo: una sera di un anno fa, redazione di ctrl magazine, si cercano idee per nuove rubriche – che noia il reportage dal rave party! – e provo a buttare lì un’idea stonata: perchè non fare delle recensioni delle messe in quanto spettacoli, dove raccontare la location, le vibrazioni, il carisma del front-man e l’integralismo della massa-pubblico…

un’idea non nuova, già Camillo Langone faceva qualcosa del genere sul Foglio…

quello che non mi aspettavo era che nascesse un serissimo e pimpante gruppo di ricerca dedicato, il gruppo Cultras, composto da x giovani menti brillanti (musicologi, sociologi, storici, letterati) che con pseudonimi vari, in modo Debord-ante, da ormai un anno firmano recensioni mai viste: la messa del vescovo, la messa in latino, la messa dell’invasato, la messa dei protestanti, dei testimoni di geova, dei mormoni, degli ortodossi…

Si tratta di un “lavoro culturale” destinato a rimanere: ricerca, divulgazione, scandalo, e anche correttezza ed equilibrio.

Lo stesso gruppo sta realizzando anche un altro “lavoro culturale” davvero interessante, il remake in linguaggio underground del martirologio cattolico, cioè le vita dei santi + immaginetta, ogni giorno il santo del giorno in una pagina, in linguaggio contemporaneo, con illustrazioni originali che riescono nella mission impossible: rinnovare l’iconografia cattolica….

una cosa che la Curia, L’Eco, la Fantoni e il Sant’Alessandro messi insieme con tutti i loro soldi, i loro biblisti e i loro madonnari non sono in grado di fare, limitandosi a pubblicare ogni anno sempre le stesse vite dei santi ingessate da decenni, o secoli…

Questo lavoro, che in realtà proprio perché sincero e rispettoso, raccontando i santi come personaggi contemporanei, reali, estremi, nella città più bianca e bigotta d’Italia, risulta  autenticamente dissacrante.

6-marzo-San-crodegango

Potrei raccontare molti altri progetti che conosco da vicino, a metà tra ricerca e provocazione, autofinanziati, sostenibili, come la Badante Alighieri, agenzia letteraria per scrivere la biografia del nonno; la Pub Writing Session, lo spettacolo della scrittura nei pub; gli Invisible Show; i Contemporary Locus…

Intanto, nei loro uffici, assessori e immobiliaristi, che di questi fermenti non sanno niente, vogliono, o dicono di volere, fare qualcosa per dare più vita al centro di Bergamo Bassa, al cosiddetto Centro Piacentiniano.

Ora, se vuoi veramente dare vita al centro, devi osservare quello che succede nei borghi, e studiare la storia della città. Il centro di Bergamo Bassa non nasce come località centrale, ma lo diventa in quanto “passante” tra i borghi. Devi allargare il quadro, e la prospettiva.

Non è ignorando o soffocando i fermenti dei borghi, che porti vita in centro, ma piuttosto restituendo vita e senso di connessione al Sentierone in forma di “passante verde”, tracciato pedonale da aprire con poca fatica materiale (e molta mentale!) tra la Carrara-Gamec e Piazza Pontida, attraverso i parchi Suardi-Montelungo-Caprotti (cancelli da aprire…) fino a S.Spirito, e poi via Tasso, Sentierone e via XX Settembre.

Con questo anello pedonale tu scendi dalle mura, da Porta S.Agostino/via S.Tomaso, traversi tutto il centro e risali da S.Alessandro in Porta San Giacomo: e così integri città alta e bassa nella fruizione turistica pedonale, storico-artistica,

questo i turisti lo apprezzerebbero, e così pure i commercianti del centro e dei borghi, che per loro natura miope sono incapaci di vedere che oltre l’isola pedonale –  la tomba dello shopping – c’è l’arcipelago pedonale, e la resurrezione urbana.

Se Bergamo deve rinascere come città d’arte-turismo-cultura, è chiaro che i fermenti verranno dai borghi, dai luoghi dove ci sono artisti, gallerie, editori, sono loro che faranno crescere la città come città d’arte e cultura, proprio come secoli fa gli artigiani e le botteghe dei borghi hanno creato la città commerciale…

non serve fare la partnership con l’università di Harvard e spendere milioni in progetti di Smart City, sto parlando di aprire cancelli e portoni, sto parlando di aprire la mente della città…

forse non tutti sanno che il Sentierone  in origine si chiamava Sentierino, ed era appunto un Sentierino che collegava i borghi attraversando il grande prato di Sant’Alessandro (dove oggi sorge il centro Piacentiniano).

Aumentando il flusso, il Sentierino divenne Sentierone,  quindi si costruì la fiera, quindi il centro Piacentiniano oggi desertificato.

Ma il tracciato del Sentierino lo vedi ancora, tu guarda la mappa del 1600, e riconosci il filare d’alberi che ancora oggi corre a lato del Sentierone tra la Chiesa di San Bartolomeo e Palazzo Frizzoni: quello è il Sentierino.

Ricoperto di vecchio asfalto, orlato da brutti pannelli con brutte affissioni pubblicitarie, meriterebbe maggior cura, e una targhetta che in poche righe racconti la storia, e il senso, del Sentierino che diventò un Sentierone.

Insegniamo alle persone ad attraversare Bergamo Centro a piedi, dalla Carrara alle 5 vie, e riavremo la centralità del Sentierone.

Ma qui abbiamo architetti che vanno in America a farsi spiegare come fare marketing urbano, e poi tornano masterizzati, e per rivitalizzare il centro hanno idee brillantissime come quella di cambiare nome a Largo Bortolo Belotti, perché “è un nome che non ha appeal turistico”.

Io questi li rinchiuderei due o tre mesi al Gleno a leggere bene la Storia di Bergamo e dei Bergamaschi di Bortolo Belotti in 10 tomi e 2000 pagine, da sapere a menadito per riavere la libertà.

Il fatto è che la cultura a volte manca proprio agli uomini di potere che vorrebbero promuoverla. E alle donne, pardon.

pianta-prospettica-di-Giovanni-Macheri-1660pic

la dieta break

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dietaBreak

La dieta break è una dieta di rottura (break bones) dai risultati strepitosi:

meno 10 kg di massa grassa persi in 30 gg e più 5kg di massa muscolare, praticamente quello che inseguivo vanamente da anni,

per perdere peso giocavo a calcio, giocando a calcio mi sono distrutto un ginocchio, con la gamba rotta ho scoperto la dieta break,

morale: per diventare un palestrato ho dovuto diventare un invalido!

Come dice lo zio Bob: nulla è per caso!

(nella photo:  il soggetto con sigaretta nella mutanda e libro nel gambone. > la vera storia di come ho conosciuto lo zio Bob qui: https://calepiopress.it/2013/07/19/la-giornata-dello-scrittore-sovversivo/ )

il telefono che uso da 10 anni

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NokiaLeo

Il telefono che uso da 10 anni (15.000 sms inviati, 35.000 ricevuti, oltre 500 nomi in agenda) era già superato quando l’ho comprato. Prima ho avuto un Motorola usato, di quelli grossi come un walkie-talkie, che non è durato tanto.

Non saprei dire di preciso quando ho cominciato a diventare un consumatore di retroguardia, una volta anch’io ero un giovane all’avanguardia in fatto di tecnologia, abbigliamento, mobilità, mode culturali…

Forse è successo ai tempi dell’università, andando fuori corso, sì, è stato allora; o forse c’entra anche il crollo del comunismo, e la conseguente modulazione dell’imprinting anti-capitalista in rifiuto dell’omologazione consumista.

Non si tratta di una forma di integralismo, ma di resistenza passiva: essere alla retroguardia non significa essere fuori dal proprio tempo, ma arrivare per ultimi, adottare l’usanza comune quando è generalizzata, quasi per deriva, una resa al prodotto inevitabile, mentre chi è all’avanguardia è già due gradini oltre.

Il ciclo dei consumi, come quello della moda, prevede una nicchia di innovatori, cui segue la massa, e infine la nicchia della retroguardia.

Ora che quasi tutti hanno lo smartphone o l’iphone, anche noi della vecchia guardia, uno ad uno, ci arrenderemo all’usanza diffusa, e verremo normalizzati.

A un certo punto sei obbligato, e devi cedere: da mesi la Vodafone mi manda messaggi intimidatori: sappiamo tutto, solo per te il nuovo Galaxy gratis, cosa aspetti! Che domande! Aspettavo il decennale!

Nel frattempo, in condizione di handicap tecnologico, noi retrogradi in questi 10 anni abbiamo potuto osservare come è cambiata la vita dei nostri simili, e arrivare consapevoli, preparati al cambio  di vita: perchè è indubbio che l’innovazione tecnologica ti cambia la vita, e non sempre in meglio, come tutti prima o poi abbiamo potuto sperimentare.

Il mezzo è il messaggio, anche in questo caso: in un mondo dove tutti sono sempre reperibili e responsive, messaggi non in linea con il mezzo, come “please rispondimi su sms” “sarò off line fino a domani mattina” “mandami la foto via mail” “vediamoci martedì senza ulteriore avviso” vengono sempre ignorati dall’utente umano che ormai è tutt’uno con il mezzo.

Il mito delle reperibilità, iniziato con il cercapersone, oggi è una realtà totalizzante.

Nell’arco di questo decennio siamo cambiati. Poter mandare parole sempre a chiunque in ogni luogo ci ha fatto perdere il valore della parola data, e precipitare nello stress degli  appuntamenti elastici (“chiamami quando parti, chiamami quando arrivi”).

Eravamo esseri umani, con 5 sensi e 1 anima, e siamo diventati periferiche di un’intelligenza artificiale eterea, fatta di programmi, server e memorie che stanno tra le nuvole, proprio come la forma suprema d’intelligenza che programmiamo da millenni: Dio.

Eppure, nonostante sia (o appaia) sempre più accelerato, alla fine il nostro tempo ha sempre la stessa unità di misura e di senso: il decennio

Noi viviamo le nostre vite misurandoci sul decennio.

Pensiamo a noi stessi, a “come eravamo” a 20 anni, a 30 anni, a 40 anni. Gli stessi oggetti d’uso quotidiani, prima del consumismo, duravano un decenni, e accompagnandoci segnavano il nostro tempo.

Non solo la storia personale, ma anche la storia collettiva, la grande storia, è scritta sui decenni: basta dire gli anni 20, gli anni 30, gli anni 40 ed ecco le avanguardie, i totalitarismi, la guerra mondiale, poi gli anni, 50, 60, 70, 80, il boom economico, la dolce vita, gli anni di piombo e il made in Italy.

Il fatto è questo: 10 anni sono un pezzo di storia, e oggi né i nostri oggetti-feticcio, né le tendenze culturali arrivano a durare un decennio, a maturare.

Il decennio è un tempo-prova, un “periodo”, un principio cognitivo.

Tutti ricordiamo che a un certo punto nei libri di storia, al liceo, c’era un capitolo della storia d’Italia intitolato “il decennio preparatorio”, che racconta come si siano gettate le basi dell’Unità d’Italia tra le sommosse del 48 e la spedizione dei Mille del 1861.

Quel primo tratto di storia d’Italia, quel lungo decennio di anteprima all’impresa dei Mille, costituisce una metafora perfetta, nel suo sviluppo non lineare, ma circolare, di quelle  “micro-storie d’italia” che saranno le imprese del made in Italy: un’idea/sentimento d’innesco, il contagio/condivisione, quindi la fase difficile, l’epoca in cui l’idea deve diventare grande,  superare l’infanzia, fare presa nella realtà, resistere alla tipica dinamica di caduta dell’entusiasmo in corrispondenza della costruzione del consenso…

Se supera il decennio preparatorio, un’idea, un prodotto, un’azienda diventa adulta.

Ma la mortalità infantile del made in italy è sempre stata altissima. E anche nelle nostre vite private, spesso viviamo progetti di vita che non arrivano al decennio, in amore, nel lavoro, e poi ricominciamo. Cambiamo telefono, e cominciamo un nuovo gioco. Siamo eterni bambini, noi italiani.

Ma ci dimentichiamo della mission più importante dell’essere bambini: dire la verità, avere l’incoscienza di gridare che “il re è nudo”.

Photo: il mio telefono. Infilato nel Nokia: “faccine” by J.Gandossi, che ora uso come agenda-memo, col n. di tel. sul retro, dopo aver appurato che più della metà dei 500 n. in agenda… non so più chi siano!)