il cane che correva sull’acqua

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UpperDogNuota

Mi chiamo Bea Lee e sono nata in Manciuria.

Fin dalla nascita mi hanno addestrata a correre sull’acqua.

Per tutta l’età dello sviluppo le mie zampe sono state fasciate molto strette tra due tavolette di legno.

Lo scopo era quello di costringere le mie zampe a diventare simili a quelle delle anatre. Con me c’erano altri cani di ogni razza.

La selezione è stata durissima. Dopo tre anni di esercizi quotidiani riuscivo a fare più di cinquanta metri di corsa sull’acqua.

Il mio maestro lanciava un bastoncino nel lago io correvo a prenderlo e glielo riportavo.

La difficoltà più grande è nel momento dell’inversione di marcia.

E’ lì che rischi di andare a fondo.

Un bel giorno è arrivato un uomo d’affari italiano.

Dopo aver visto quello che sapevo fare mi ha comprata.

Mi ha portata a casa sua, a Sarnico.

Il sabato mattina ci siamo recati sul molo.

Il mio nuovo padrone ha lanciato un bastoncino nel lago e io sono andata a prenderlo di corsa.

Un vecchietto dell’associazione marinai di Sarnico era sul molo a guardare e scuoteva la testa.

Allora il mio padrone ha lanciato di nuovo il bastoncino e io di nuovo sono corsa a prenderlo e a riportarlo. Ma il vecchietto scuoteva ancora la testa.

Per la terza volta ho dovuto correre sulle acque del lago.

Quando sono arrivata sul molo, il vecchietto, scuotendo la testa ha detto:

“Quel cane lì non impara più a nuotare”.

tratto da “Upper Dog – Le avventure di Otto e Bea”  Calepio Press 2008

disegno di http://www.jennifergandossi.it/home.html

la nuova merce informazione

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HPIM2103

(4 note di B.Horn sulla trasformazione in corso della merce-informazione)

1. In passato i mass-media erano espressione egemonica sulla società di un potere economico che li utilizzava per costruire il suo immaginario,

il racconto di sé come unica società possibile, con una mediazione sociale chiamata libertà di stampa.

Come ogni libero pensatore ha potuto verificare sulla propria pelle,

la stampa, costretta nell’economia dell’informazione,

è libera quanto il nullatenente è libero di non andare a lavorare.

2. Oggi la comunicazione è merce nuova. Una merce che realizza il suo valore nello scambio www fra milioni di persone che al tempo stesso sono produttori e utenti.

Una merce gratuita intercettata e controllata nella sua circolazione a costo zero dai generatori di software, dai motori di ricerca e dai social network, nuove forme di monopolio dell’industria del consenso.

Così controllata, la merce comunicazione produce ricchezza per le elites finanziarie

ad opera di eserciti di persone a cui è concesso uno stato di sopravvivenza precaria nella perenne ricerca della notorietà  e del successo.

3. La nuova merce comunicazione genera comportamenti ed emozioni che sono alla base dei consumi e dunque dei flussi finanziari.

La merce comunicazione è dunque una merce di tipo nuovo, che si fonda su uno scambio simbolico culturale in grado di diffondersi  e farsi mercato e generare miliardi di utenti.

4. Mentre la vecchia merce entrava in eccesso nei mercati e provocava la ciclicità delle crisi economiche, ora la merce comunicazione non ha alcuna ciclicità,

il suo potere distruttivo può indirizzarsi verso il valore delle economie che si vogliono soggiogare indipendentemente dal ciclo economico.

La vecchia merce distruggeva i mercati per quantità in eccesso,

la nuova merce distrugge agendo sul valore dei mercati.

Il  valore economico di intere comunità, culture, nazioni può essere raso al suolo e ricostituito ottenendo gli stessi risultati di una guerra senza l’uso delle armi.

La merce comunicazione è la forma attuale dell’economia politica.

B.Horn

the male code – cap1

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MaleCode1byAthosFFE

screenplay for Christian Bale by Leone Belotti – CalepioPress © 2013 – da un’idea di Gian Franco Bortolotti

cap 1 il codice sorgente  Detroit, 1974.

E’ il primo sabato pomeriggio di sole dopo mesi di pioggia grigia sui quartieri operai di Detroit.

Christian Code, undici anni, magro, un po’ piccolo e gracile per la sua età, americano di terza generazione, figlio di operai di origine irlandese,

da due ore è costretto a starsene seduto in silenzio sul primo banco della parrocchia cattolica di St.Paul, aspettando “il momento più importante” del suo “cammino di cristiano”.

Dei trenta ragazzi della sua classe che devono confessarsi in preparazione della cresima, lui è stato sorteggiato per ultimo.

I suoi compagni uno dopo l’altro si inginocchiano davanti a padre Jacob, seduto su una specie di trono accanto all’altare, e gli confessano i propri peccati.

Christian ha l’espressione assorta, e la mente altrove.

Sta cercando di eseguire, scrivendolo a mente, il lungo compito-questionario di grammatica che deve consegnare lunedì.

Arrivato a metà, si blocca su “fai un esempio di domanda retorica e spiegala in cinque righe”.

Si mette a guardare a testa in su gli opprimenti e scuri affreschi delle navate della cupola.

I santi gli sembrano morti viventi intenzionati a calargli addosso dall’alto come zombie.

Poi, come sempre, la sua attenzione si fissa sul martirio di San Pietro, sul gesto del soldato che colpisce la figura accartocciata a terra.

Una scena che vede spesso in casa, quasi ogni fine settimana.

Suo padre che picchia sua madre, sberle, calci.

E improvvisamente, pensando a sua madre presa a calci da suo padre, gli sale quel suo  sorriso da saputello. Ha appena trovato un esempio perfetto di domanda retorica.

Tu dov’eri il giorno dell’assassinio Kennedy?

Come spiegazione, a mente, di getto, scrive:

“Trattasi  di una delle frasi che mia madre rinfaccia a mio padre sia in casa che in pubblico,

e trattasi di domanda retorica in quanto nel quartiere lo sanno tutti, vicini, colleghi, parenti, dov’era mio padre Robert Code quel giorno del 1963,

mentre a Dallas moriva di morte violenta e prematura il presidente che voleva cambiare l’America e a Detroit, in un ospedale pubblico, in modo altrettanto violento e prematuro, nascevo io, Christian Code,

rischiando di uccidere sia mia madre che me stesso,

dopo un’agonia durata sei ore

iniziata quando mia madre si è trascinata sanguinando in strada, dove è stata raccolta da una Ford della polizia municipale che l’ha portata a sirene spiegate all’ospedale.

Come tutti sanno mio padre quel giorno era al pub, ubriaco, a guardare l’assassinio Kennedy in Tv.”

Christian è soddisfatto.

Immagina la reazione scandalizzata della vecchia signorina Gonzalez, l’insegnante di lettere.

Si mette a ridere.

* * *

Quando finalmente arriva il suo turno, la chiesa è vuota e padre Jacob è già molto stanco.

Padre Jacob non è un prete esemplare.

E’ avido, meschino e vendicativo.

Autoritario con donne e bambini, servile e untuoso con potenti e possidenti.

Ma non è un pedofilo.

Gli aspetti morbosi della confessione non l’hanno mai toccato. Semmai annoiato.

Da tutto il pomeriggio è alle prese con le confessioni dei ragazzi della classe 63, in preparazione della cresima.

Non vede l’ora di chiudere la chiesa, ritirarsi in sagrestia e versarsi un bicchiere di vino in santa pace.

Imbullonare la morale cattolica nelle testoline cocciute dei figli degli operai è un lavoro massacrante, snervante e ripetitivo.

Un lavoro di chiodo e martello, peccato e senso di colpa, un sacramento dopo l’altro, come in catena di montaggio.

Sempre le stesse domande, sempre le stesse risposte.

Dopo le formule di rito, e i peccati veniali, c’è la domanda clou.

«Ti tocchi, figliolo?»

Negli ultimi vent’anni padre Jacob ha fatto migliaia di volte questa domanda a intere generazioni di ragazzini di origine irlandese, italiana e ispanica.

La reazione dei  ragazzini, la prima volta, è sempre la stessa:

un silenzio pesante, carico di vergogna e senso di colpa, sul quale calare incalzante e risolutiva la domanda vera, che fa superare ogni impasse:

«Quante volte al giorno?»

Ma questa volta, appena fatto la domanda, un campanello d’allarme gli suona in testa.

C’è qualcosa che non va, c’è qualcosa di diverso, di sbagliato, qualcosa che gli è sfuggito.

Padre Jacob si accende d’attenzione, riavvolge rapidamente il nastro (“Ti tocchi, figliolo? Si, padre! Quante volte al giorno?”) e  capisce.

Quel “si, padre!” è stato troppo immediato e naturale, colloquiale.

Come se gli avesse chiesto “Sai nuotare?”.

Doveva aspettare a porre la domanda definitiva, soppesare quel “Si, padre!”.

Ha commesso un errore, si è lasciato ingannare dal suo stesso metodo, dalla tecnica ripetuta meccanicamente.

Ma ormai è troppo tardi.

Dall’alto scranno di legno, la sua figura imponente, in tonaca nera,  si erge troneggiando sul ragazzino esile, dai lineamenti delicati, inginocchiato davanti a lui a mani giunte e capo chino su un piccolo cuscino color porpora.

Ora lo riconosce, e sa di essere caduto in una trappola.

Christian Code, il piccolo genio, figlio di operai Chrisler.

Lui e l’altro “disadattato” della scuola, il pakistano sudato che tutti chiamano Paky, qualche mese prima sono risultati “tecnicamente dei geni” , con quoziente intellettuale superiore a 150, nell’indagine svolta dall’istituto di psico-sociologia sui ragazzi della scuola della parrocchia.

Il prof.Mc Ewan gli ha suggerito di parlare alle famiglie, per invitarle a far proseguire gli studi ai due ragazzi.

Ma lui non l’ha ancora fatto.

L’esperienza gli dice che un figlio troppo intelligente, nelle famiglie povere, può essere una disgrazia.

Ora lo osserva con attenzione.

Il giovane Code, dopo aver risposto con immediatezza alla domanda “Ti tocchi?”, ora, per rispondere alla domanda “Quante volte al giorno?”,  pare assorto in una  riflessione complicata.

Ha gli occhi chiusi e muove velocemente e silenziosamente le labbra, come stesse pregando.

Infine alza il viso, e per un istante padre Jacob si sente quasi intimorito, affascinato.

L’espressione di Christian è il ritratto dell’innocenza infantile.

«Più o meno 500 volte al giorno, padre»

Padre Jacob non reagisce.

Uno schiaffo a mano aperta sarebbe la soluzione più ovvia.

Ma nel dubbio, si trattiene. Sospira.

Paziente, chiede: «Così tante volte?». Christian annuisce.

«Ogni giorno?»

«Si padre, e quando faccio il bagno, aumenta la media!»

Padre Jacob si sporge in avanti. Christian vorrebbe ridere.

Padre Jacob sta cambiando colore e diventando rosso di rabbia come il gatto Silvestro.

«E perché mai secondo te, figliolo, il padre confessore ti dovrebbe chiedere quante volte al giorno ti tocchi?»

Christian non si lascia ingannare dalla voce controllata: lo sguardo del prete è un fucile puntato sui suoi occhi, pronto a far fuoco.

«Non ne ho idea, padre»

«Pensaci!» sbotta padre Jacob calando una manata rabbiosa sul grosso bracciolo di legno intarsiato.

Christian sussulta e spalanca gli occhi.

Si sforza di reggere lo sguardo infuocato di padre Jacob, ma dentro di lui si insinua la paura.

Con voce fin troppo incerta, timorosa, chiede:

«Vuole sapere se mi tocco in maniera peccaminosa, padre?»

Ma padre Jacob continua a fissarlo con espressione tetra.

Allora Christian si morde le labbra, e improvvisamente la paura, la paura di essere picchiato, lo divora.

Christian è come un gatto immobilizzato.

Cerca di reggere gli occhi fiammeggianti, mentre nel suo cervello passano rapide una serie di opzioni sulla prossima cosa da dire:

«Vuole sapere se pratico la masturbazione?»

«Vuole sapere se mi tocco il pene indurito pensando alla signora McBride fino a disperdere il seme nei pantaloni o nel fazzoletto o nel water?»

Quando parla, la sua voce è stridula, e la frase assurda, surreale in bocca a un ragazzino:

«Con ogni probabilità il padre confessore vuole sapere se disperdo il seme»

Lo sguardo di padre Jacob è imperscrutabile.

Christian deglutisce. Con un filo di voce, a capo chino, mormora: «Si, padre, disperdo il seme, dalle cinque alle dieci volte al giorno, più la notte, nei sogni»

Padre Jacob lentamente si rilassa.

Un’altra dura giornata di lavoro in archivio.

La sua vecchia carcassa di soldato di Cristo si affloscia sui velluti rossi di quella specie di trono in cui è assiso.

Ora non resta che comminargli la punizione (ne reciterai venti ogni sera) dopo avergli  fatto recitare l’Ave o Maria.

«Ave o Maria» dice, invitando Christian a recitare la preghiera ad alta voce.

E Christian obbediente recita:

«Ave o Maria, piena di grazia, venga il tuo regno e sia fatta la tua volontà…»

Padre Jacob si alza di scatto, rovesciando lo scranno.

Christian schizza a sua volta in piedi facendo un balzo indietro, schivando il braccio proteso del prete, ma non il suo indice accusatore:

«Vattene a casa, Christian Code! E dì a tuo padre che domani lo aspetto in sagrestia dopo la messa. Tuo padre! Non la mamma!»

La sua voce di tenore riecheggia nella navata della chiesa, mentre Christian raggiunge quasi di corsa l’uscita.

Padre Jacob risolleva lo scranno ribaltato.

In tanti anni, non aveva mai sentito una bestemmia del genere.

Ave o Maria, venga il tuo regno!

Entrando in sagrestia si sfila la tonaca e la getta sul cassettone.

Da una madia prende un bicchiere e la bottiglia di vino italiano.

Si versa un bicchiere e lo vuota d’un sorso. Poi un secondo.

Infine si sforza di ricordare il volto del padre di Christian, inutilmente.

* * *

Gli occhi di Robert Code sono incollati sulle natiche formose della giovane donna  che al di là del banco si è piegata in avanti per sostituire il fusto di birra.

Robert è quasi sicuro che non indossi mutandine.

Inconsciamente, Robert Code  si guarda le mani.

Un metalmeccanico ha sempre le mani sporche.

Lo sporco sotto le unghie dice tutto di te.

Le frasi di sua moglie Terry gli passano nel cervello come frustate.

Gli riaprono ferite nelle quali si crogiola.

 Ormai Robert parla con lei solo nella propria testa, dopo aver bevuto tre o quattro birre.

Ogni momento è buono per sentirsi dei falliti.

Hai ragione tesoro. Ma il sabato pomeriggio in solitudine al pub, mentre fuori c’è il sole, con i Tigers in Tv che perdono una partita già vinta, ha qualcosa di speciale, che merita un’altra birra, non credi?

Quasi gli leggesse nei pensieri, appena agganciato il nuovo fusto, la ragazza gli chiede:

«Un’altra birra, Bob? Terry è di turno, no? O ti aspetta a casa?»

Da una vita Jenny McBride gli provoca fantasie erotiche che non saranno mai appagate.

Amica di sua moglie Terry dai tempi delle scuole, vicina di casa e madre di Mary Ann che è a scuola con suo figlio Christian.

Per anni Jenny e Terry si sono aiutate nel badare ai figli piccoli. Impossibile anche solo pensarci.

Ma quando il sabato indossa quella stretta camicetta per dare una mano nel pub di suo cognato, con quel seno prorompente, unica attrattiva del pub dopo le partite in tv, Robert Code  comincia a fantasticare.

«Vada per un’altra birra!»

Nel servirgli la birra, lei dice: «Si muore di caldo qui dentro!»

C’è qualcosa di malizioso in quel suo sorriso?

Robert in tanti anni non l’ha mai capito.

Ora Jenny spegne la tv e accende Radio Rock.

Le note di  Feel like making love dei Bad Company invadono il pub e Robert, nel primo sorso di birra,  rivede la faccia di sua moglie Terry stravolta dal piacere, un’immagine vecchia di anni, un bel ricordo, una grande nostalgia, fare l’amore tutti i giorni, ubriacarsi insieme, ridere e parlare fino a notte fonda.

Poi, nato Christian, niente più sesso, niente allegria, solo rancore e rabbia.

Non ricorda più l’ultima volta che hanno fatto l’amore.

Come sono lontani i tempi in cui lei lo riempiva di complimenti per la sua prestanza di grande stallone.

Adesso lo disprezza, e non in silenzio, lo aizza giorno e notte rinfacciandogli ogni sua mancanza.

Lui rimugina, e a volte esplode.

La picchia fino a farla stare zitta, cercando di non rovinarle troppo la faccia.

Poi osserva il viso di Jenny, un viso comune, e con qualcosa di volgare.

Spesso, in periodi diversi, ha pensato di provarci con lei, ma non l’ha mai fatto.

Non si è mai sposata Jenny, nemmeno dopo la nascita di Mary Ann.

Sembra dieci anni più giovane di Terry.

Si è slacciata un bottone della camicetta, adesso.

«Ti rubo una sigaretta, Bob»

Di nuovo quel sorriso, e nel prendere la sigaretta dal pacchetto che lui le offre, uno squarcio fugace nella scollatura gli trafigge il respiro.

Dal suo sgabello Robert la segue con lo sguardo e si sforza di ragionare pragmaticamente.

Lei esce a fumare. Deve raggiungerla?

E magari dirle qualcosa di spiritoso, gonfiare i muscoli, posarle un istante una mano sul fianco?

Oppure chiederle senza malizia se ha bisogno di una mano?

Il magazzino del pub è proprio dietro l’angolo, la scusa di aiutarla a portare una cassa di coca cola gli pare buona.

E appena in magazzino, sbatterla contro il muro!

Finisce la birra in un sorso, afferra il pacchetto di sigarette e sta già scendendo dallo sgabello quando si blocca.

Attraverso le vetrate, sull’altro lato della strada, vede l’orribile sagoma, un alberello rachitico in movimento, di suo figlio Christian.

Ha i pantaloni sporchi di fango e la maglietta lacerata.

Doveva andare in parrocchia per le confessioni, ma evidentemente si è poi fermato a giocare nel campetto di terra dell’oratorio e adesso sta andando a casa a lavarsi.

Cioè a sporcare il bagno. Poi Terry se la prenderà con lui.

Anche Jenny ha visto Christian, Robert osserva la scena.

Jenny sta gridando qualcosa per attirare l’attenzione di Christian, l’espressione felice.

Fa sempre così con lui, lo ricopre di complimenti esagerati,  “il mio ragazzo preferito”, “l’unico maschio intelligente di questa città”.

Christian la vede e si illumina. Attraversa la strada senza nemmeno guardare. Un idiota!

Jenny getta via la sigaretta appena accesa e spalanca le braccia.

Christian si tuffa letteralmente tra i seni maestosi di Jenny Mc Bride, che se lo stringe addosso come volesse divorarlo.

Robert Code ha bevuto parecchio, ma la sua vista non è offuscata, e vede distintamente,  mentre lei gli stringe la testa al petto, le mani di suo figlio Christian che furtive, nello sciogliersi dall’abbraccio, indugiano sull’attaccatura dei seni della donna.

Lei gli dà un bacio in fronte e lo allontana con dolcezza.

Christian corre via. E poi Jenny fa qualcosa che spiazza Robert: gettato un rapido sguardo intorno, raccoglie la sigaretta da terra, e la riattizza aspirando lunghe boccate compulsive.

* * *

Don’t let me be misunderstood.

Il volume della musica è altissimo, si sente fino in strada.

E Robert da sempre odia quella canzone, quelle parole, quella musica.

Anche prima che Terry gli dicesse: forse odi te stesso, la tua incapacità di esprimerti.

Robert Code sente crescere la rabbia.

Salendo le scale a due gradini per volta, ubriaco, quasi inciampa.

Arrivato al pianerottolo di casa, pensa: “lo ammazzo”.

Spalanca la porta d’ingresso urlando: «Abbassa questa cazzo di musica!».

Ma in soggiorno e nelle camere non c’è nessuno. La porta del bagno è aperta.

Nessuna traccia di Christian.

Per un attimo pensa di andare a spegnere lo stereo, ma la vescica gli sta scoppiando per le troppe birre bevute.

Entrando in bagno si slaccia i pantaloni, e solo allora nota che la vasca è piena d’acqua e di schiuma fin quasi a strabordare.

Per un istante osserva in silenzio la superficie dell’acqua. Che non è perfettamente immobile. Allora protende le mani come artigli nell’acqua.

La preda è viscida, sfuggente, e si dibatte come un pesce.  

Solo le mani sai usare, e nemmeno tanto bene.

Sono mani brutte, grosse, callose, ma forti, dure. Christian non ha scampo.

La sua idea di eclissarsi in apnea, come nei film d’avventura, si rivela una tragedia.

Avrebbe dovuto schizzare fuori dall’acqua mentre suo padre lo cercava in camera, afferrare l’accappatoio e darsela a gambe.

Con presa ferrea, con una mano sola, la sinistra, suo padre lo tira fuori dalla vasca, tenendolo stretto per il collo.

Christian è stupito dalla facilità con cui suo padre lo afferra. Con le mani, cerca inutilmente di coprirsi le parti basse.

Disgustato, Robert vede ciò che suo figlio cerca di nascondere: il suo piccolo pene turgido!

Si stava masturbando!

Lo solleva davanti a sé, inchiodandolo al muro.

Anche se ha sbattuto la testa contro le piastrelle bianche Christian non grida, non urla.

Ora arriveranno le sberle, lo sanno entrambi.

Schiaffi e manrovesci, due, quattro, sei, otto, anche dieci, è la routine del fine settimana in casa Code, o lui, o la mamma, a turno.

Per un istante i due maschi si fissano negli occhi.

Bello come un angioletto, tutto il contrario di suo padre.

Poi  Christian perde il controllo, qualcosa dentro di lui si spezza, e del tutto involontariamente, mentre ancora lo stereo spara le ultime note di misunderstood, eiacula in faccia a suo padre.

La destra del padre, chiusa a pugno, scatta immediata e si abbatte violentissima sul viso di Christian.

* * *

All’istante Christian perde i sensi a ricade a corpo morto nella vasca, facendo uscire secchiate d’acqua.

Ora Robert è in preda al panico. Scivola, cade, si ferisce.

Carponi, in ginocchio davanti alla vasca,  solleva il corpo di suo figlio, lo porta in soggiorno, lo distende sul divano, lo copre.

Poi trova il coraggio di posargli una mano sul petto.

Il cuore batte, ma al posto della faccia, della bocca, del naso, c’è una maschera di sangue.

Come fa a respirare?

Robert cerca un fazzoletto, e mentre si aggira sconvolto nei pochi metri quadri della casa, trova la lucidità di strappare quel cavo elettrico, e spegnere lo stereo.

Finalmente trova un tovagliolo pulito.

Nel pulirgli il naso si rende conto che l’osso è frantumato.

Torna in bagno a prendere la scatola delle medicazioni, e mentre è in bagno, nel tetro silenzio che è calato in casa Code,  lo sente tossire violentemente.

E nel precipitarsi in soggiorno, quasi scivola di nuovo sulle piastrelle bagnate, ma con una spallata allo stipite della porta del bagno, riprende l’equilibrio.

Christian ha gli occhi aperti, ma è immobile.

«Riesci a muoverti?»

Christian non risponde, però solleva e apre la mano destra, poi la sinistra, e infine muove le dita dei piedi.

Robert guarda l’orologio. Le nove e cinque. Manca ancor quasi un’ora alla fine del turno.

Afferra il telefono, e chiama il caporeparto perché mandi subito a casa Terry.

Il caporeparto è un amico, non c’è bisogno di spiegargli niente.

Mezz’ora dopo, mentre Terry porta Christian al pronto soccorso della fabbrica, Robert si fa una doccia fredda e indossa il suo vestito migliore.

Si mette alla guida della vecchia Dodge e va a suonare il campanello della canonica.

Sono quasi le dieci di sera. Ha infilato 50 dollari in una busta e appena padre Jacob gli apre la porta gliela consegna.

Padre Jacob riconosce subito quel volto dimenticato e il suo bisogno. Lo fa entrare senza fargli domande.

E’ sufficiente uno sguardo di compassione.

«Stasera ho bevuto, padre, e ho picchiato mio figlio»

Padre Jacob infila la busta in un cassetto e riflette.

L’uomo davanti a lui è sconvolto. Il suo pentimento sincero.

Dio vede e provvede.

Non è il momento di affrontare certi discorsi sulla “diversità” del cresimando Christian Code.

Probabilmente Robert Code non sa nemmeno cosa sia il quoziente d’intelligenza.

Padre Jacob lascia trascorrere qualche ragionevole istante prima di alzare la destra nel segno della croce.

Robert piega il capo e giunge le mani.

E padre Jacob recita:

«Ego te absolvo in nomine patri».

* * *

Uscito dalla parrocchia, Robert non sa cosa fare.

Non ha il coraggio di andare al pronto soccorso.

Fa una lunga camminata seguendo la recinzione della fonderia.

La sua testa è piena di pensieri confusi su casi di morte conseguente a emorragia cerebrale di persone che dopo il trauma riprendono momentaneamente i sensi.

Alla fine del giro, da lontano, nota che davanti al posto di pronto soccorso non c’è alcuna auto. Dunque Terry e Christian sono rientrai a casa.

Con la speranza nel cuore, ripercorre il lungo tragitto.

Quando rientra a casa è passata la mezzanotte.

Terry sta guardando la Tv, la sigaretta che le pende all’angolo della bocca.

La camicetta aperta, il reggiseno sul tavolino, iI posacenere pieno di cicche.

Non sono la tua baldracca.

Robert attende. Inutile chiederle.

Come sempre, lei inizierà a parlare quando lo deciderà lei, di scatto, come un’arma automatica, per frasi secche, senza guardarlo.

Roberto attende in piedi per un tempo lunghissimo, in preda a un’ansia crescente.

Perché le porte delle due camere sono aperte, e Christian non c’è.

Terry spegne la sigaretta, la spegne con cura.

Poi ne accende un’altra e la fuma quasi per intero.

«L’hanno trattenuto in osservazione. Ti è andata bene. Avresti potuto ammazzarlo»

* * *

FINE PRIMO CAPITOLO – segue

photo “The baby was” by Athos Mazzoleni

http://www.foodforeyes.com/ 

piano dell’opera: The male code  (original screenplay for Christian Bale

by Leone Belotti / GianFranco Bortolotti / CalepioPress©2013)

 

INDEX

 parte prima 

1 – il codice sorgente                       Detroit, 1974.

2  – la scheda madre                        Detroit, 1976.

3 – la periferica di controllo            Detroit, 1978.

4  – il sistema operativo                   New York, 1980.

5  – la relazione in copyright           Boston, 1982

6  – la scheda di memoria                Detroit, 1984

parte seconda

7  – la donna software                      Sylicon Valley, 1986

8  – la donna telefonia mobile          NY-London, 1988

9  – la donna pixel                             NY-Paris, 1990

10  – il maschio hacker                     Los Angeles, 1992

11 – il dominio del maschio web     Mosca, 1994

12  – il maschio server                     NY-Bejing  1996

PROXIMA PUBLICATIO : CAP2 La scheda madre > MAR 9 APRIL 2013

HTML latinorum est

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sator04

(Rivelazione Pasquale by Leone XIV, latin + english + italian version)

Pascha dies novam lucem HTML adducit

quibuscumque latam et supramarcatam

e lapide ad animam trans ferentem

urbi et orbi hyper testem propalantem

id est codex lapidarium  id est HTML

Hyper-testis Trans-ferens supra-Marcata Lingua

ergo nova lingua inter nationes artificia intelligens vero latinorum est

ubi lingua exit  ibi lux fiat

id est via crucis idemque est via lucis

id est Christi passio et crucifictio et mors et resurrectio

quia resurrectio linguae vero resurrectio animae est

VOS EGO SUM

Easter brings new HTML open et marked up light to everybodies

transfering from stone to soul and sharing hypertext world web

this is the stone’s code, this is HTML (Hypertext Transfer Markup Language)

so the new international artificial intelligence language really latin is

switch on light  where language comes out  

this is the cross way and the same light way

this is Christ’s passion and crucifiction and death and resurecction

because language’s resurrection really is soul’s resurrection

I’M YOU

il giorno di Pasqua dà a chiunque nuova luce HTML,

una luce diffusa e segnata, trasferibile dalla pietra all’anima,

in grado di portare un’iper-testimonianza in tutto il mondo

questo è il codice lapidario, questo è il linguaggio HTML

(linguaggio di trasferimento d’ipertesto contrassegnato)

dunque la nuova lingua internazionale dell’intelligenza artificiale in realtà è il latino

sia fatta luce laddove sgorga la lingua

questa è la via della croce e insieme la via della luce

questa è la passione, crocifissione, morte e resurrezione di Cristo,

perchè la rinascita della lingua in realtà è la rinascita dell’anima

IO SONO VOI

tu perché sei qui?

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beckett1a

All’inizio mi vergognavo, alla mia età, ottanta anni passati,

poi ho capito, qui siamo tutti sulla stessa barca,

dopo un po’ nasce la confidenza, come in galera, tu perché sei qui, cosa hai fatto: solo che a rinchiuderti non sono stati i carabinieri, ma i tuoi figli,

io sono qui perché ho un cancro all’anima, rispondo, quando qualcuno vuole saperlo, questo cancro l’ho preso in banca, e mi ha portato qui,

prima vivevo nel mio appartamento, col mio cane, la mia pensione, le mie abitudini,

poi un bel giorno in posta mi hanno spiegato che non potevano più darmi la pensione in contanti, una disposizione anti-mafia e anti-evasione,

al momento m’ero inalberato, cosa c’entra la mia pensione con la mafia o l’evasione, non ho fatto che lavorare tutta la vita, sono stato a Roma una volta per l’anno santo,

ad ogni modo mi hanno detto che non c’era da discutere, e anche io, che mi ero sempre vantato di non avere mai dato una lira alle banche, per avere la pensione dovevo fare il conto in banca,

è gratuito, assolutamente gratuito, me l’hanno messo per scritto, e va bene, e così all’alba degli ottantanni ho avuto il mio primo conto in banca,

adesso che hai il conto, mi ha spiegato mia figlia, puoi pagare le bollette direttamente, senza bisogno di andare a far le code in posta (l’unica cosa che avevo da fare),

poi hanno cominciato ad arrivarmi telefonate promozionali specializzate per noi anziani, con offerte vantaggiose per comprare prodotti di qualità, consegnati direttamente a casa, addebitati direttamente in banca, e ci sono cascato, pensavo di fare dei regali per Natale ai figli, e invece le ho sentite su da tutti,

e alla fine mia figlia mi ha convinto a togliere il telefono fisso – le uniche telefonate che ricevevo erano proprio quelle delle offerte telefoniche –  e al suo posto mi ha dato un cellulare,

e poi è successo quello che è successo:

metà Febbraio, freddo porco, e non va il riscaldamento: alla fine viene fuori che mi hanno chiuso il metano perchè non avevo pagato l’ultima bolletta,

ma non le pagava automaticamente la banca? Sì, mi hanno detto, ma se sul conto non ci sono i soldi, la banca non la paga, e la società del gas ti sospende il gas, questo è successo,

la banca non mi ha mica avvisato che non mi pagava la bolletta, e la società del gas dice che mi hanno mandato la raccomandata, ma quale raccomandata, sono mesi che non ne ricevo!

Salta fuori che le raccomandate io non le ho nemmeno viste, ero abituato ai cartoncini gialli, invece adesso le Poste ti mettono degli scontrini arrotolati che a me sembravano quei bigliettini che ti mettono nella posta per vendere qualcosa, e li buttavo via,

così ho chiamato il numero verde, che è gratuito per i telefoni fissi, ma io il fisso non l’avevo più, e dopo venti minuti ad ascoltare il centralino avevo finito il credito del cellulare,

allora ho attraversato la città, sono andato là allo sportello, e ho fatto due ore di coda per venire a sapere che per riattaccare il gas oltre a tutto l’arretrato c’era anche la spesa di riattivazione, per un importo pari a €36,50 + iva incrementabili a €160,00 + iva a seconda del distributore locale, c’è scritto proprio così nero su bianco, una roba che mi ha mandato in bestia,

come se al mercato sulle patate uno mettesse un cartello con scritto 2€ al chilo incrementabili a 18€ a seconda di chi vi serve: uno così al mercato ortofrutticolo si prenderebbe delle belle pedate nel sedere, e di santa ragione,

così me ne sono rimasto tre giorni chiuso in casa a mangiarmi il fegato e crepare di freddo senza potermi scaldare, lavare, niente, come un profugo, una roba che dal dopoguerra non mi era mai successa,

finché è arrivata mia figlia e in un attimo tutta la mia rabbia verso la banca e la società del gas e i loro meccanismi automatici si è girata in una umiliazione, una vergogna, alla fine ero io che non ero più in grado di badare a me stesso,

non si fidava più a lasciarmi da solo, non sei in grado di gestirti mi ha detto,

ecco cosa ci faccio in casa di riposo,

per tutta la vita ho tenuto la paga sotto il materasso e mai una bolletta in ritardo,

in sei mesi col conto in banca sono rimasto senza riscaldamento e sono finito all’ospizio, bell’affare

a mio nonno, a mio padre, una cosa del genere non sarebbe mai successa,

una volta non c’era neanche la pensione, ma il vecio restava in casa, moriva a casa sua,

e anche se ormai tutte le faccende erano in mano ai figli, gli restava se non la sostanza almeno una forma d’autorità,

a una certa età, quando non sei più tanto fisicamente in forma, sono importanti anche le forme, il rispetto che hanno per te,

una volta i figli si sarebbero vergognati a mandare il vecio al ricovero, adesso invece sono io che mi vergogno di essere qui, mentre loro si vantano con gli amici, mio padre è a villa xxxxxx, sai quanto pago di retta?

Ma è seguito benissimo!

Uno schifo, se ci penso.

Impossibile fumarsi una sigaretta, bersi un grappino, vogliono metterci nella bara con gli esami del sangue perfetti, pronti per fare le Olimpiadi della quarta età.

Vogliono farci crepare di cancro all’anima, che dagli esami non risulta, ma è il più incurabile che ci sia.

 

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DeutBankOK

Deutsche Bank pubblicizza la sua linea previdenziale

mandandomi a fare un check-up (e già al primo enunciato mi deprime)

e promettendomi (al secondo enunciato) qualcosa di evidentemente illogico:

conservare per intero la qualità della tua vita futura.

Come fai a conservare qualcosa che ancora non hai?

Quello che volevano dire è conservare in futuro la qualità della tua vita presente,

ma chi si esprime male, non ha le idee chiare, e non mi dà fiducia.

Se poi guardiamo le immagini dei beni dimezzati, e assorbiamo il concettino per intero,

vediamo che Deutsche Bank, o chi comunica per Deutsche Bank, crede che io, pensando al mio futuro, sia spaventato dal non potermi più permettere, per intero computer, orologi, viaggi, mobili firmati…

ma io non vedo l’ora di rinunciare per intero a queste cose, a questi beni materiali costosi, a questi stili di vita stressanti, per fare una vita davvero di qualità superiore, con affetti, natura, benessere e momenti di gioia varia!

per Deutsche Bank invece io, il privato cittadino italiano, al presente non sono altro che uno spendaccione esibizionista,

con ancora da pagare metà mac, metà rolex, metà maldive e metà frau (perchè è questo che davvero mi dicono le immagini)

cioè un idiota per intero (è questo che in realtà mi sta dicendo Deutsche Bank),

e questo idiota per intero dovrebbe anche sbavare fin da ora per conservare questa idiozia integrale anche in futuro (un idiota previdente!)

invece più facilmente succede questo: che l’idiota rispedisce il vai a farti un check-up! al mittente, Deutsche Bank e agenzia pubblicitaria!

Attenti all’uomo

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2013-03-13 11.30.13

quando Jeck Vom Noricum

dal suo castello in posizione dominante sull’alto corso del Danubio

vide arrivare la sua promessa sposa Tina di Val di Tiglio

lanciò il famoso latrato della stirpe dei conquistatori

– lo stesso col quale i nostri avi terrorizzarono l’impero romano all’epoca della calata dei Marcomanni devastatori –

e tutti dalla Carinzia alla Pannonia, uomini, animali, greggi,

capirono che il regno fondato da Aslan Vom Neuerkopf avrebbe avuto una successione

fu così che nacque mio nonno Jam Von Haus Hetok

il pluridecorato campione di categoria

che avebbe sposato Beba degli Azzoni

e creato la progenie cui apparteniamo sia io, Mellina, che il mio partner, Momi:

quello che i nostri avi mai avrebbero immaginato

è che due pastori tedeschi di purissima razza come noi

con tutti gli attestati genealogici internazionali

si ritrovassero un giorno su un sito di poveri bastardi

a elemosinare un nuovo padrone e un nuovo domicilio,

dal momento che il nostro padrone deve lasciare la nostra casa sui colli di Cenate nei dintorni di Bergamo,per trasferirsi a Milano, in mini appartamento,

dove ovviamente noi non possiamo (e nemmeno vogliamo) andare.

Dunque, chi volesse venire a vederci e adottarci,

avendo magari una grande proprietà da sorvegliare,

non deve far altro che scrivere a chiara.romano@muuv.it

o telefonare o sms a Omar 335.341900 e chiedere di noi,

Momi e Mellina, cani maturi, 15 anni in due,

capaci di dissolvere ogni paura nel raggio di 2km.

Pensaci, bipede! Scegli la doppia trazione a quattro zampe Momi e Mellina,

carattere fedele, grande capacità di lavoro nel settore security,

grande autonomia, prestazioni superiori, eccellenza bestiale.

Sul cancello scrivi pure “attenti al cane”,

noi in realtà siamo “attenti all’uomo”.

un cane non sceglie il suo padrone

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UpperDog2

Va bene, mi hai provocato, ti racconto la mia vera storia, poi ci penserai due volte prima di darmi del povero bastardo cagasotto.

Mi chiamo Otto e sono un lupetto bastardo.

Il mio primo ricordo è una mano umana che mi  prende dalla cesta e mi infila in un sacco di juta insieme ai miei sette fratelli

per poi tirarci fuori dopo una mezz’ora in un campo gelato per ammazzarci a bastonate

prima uno poi l’altro poi il terzo poi il quarto il quinto il sesto e il settimo mentre io per pura fortuna mi infilavo nel buco di una talpa.

Fuori nel mondo crudele sentivo questa voce di uomo che gridava: erano otto, ne ho ammazzati sette, dove sei numero Otto? Dove sei scappato, Otto?

Questo è stato il mio battesimo.

Nel buco della talpa sono rimasto per sette giorni, mangiando i ranocchietti e le lumachine che la vecchia talpa padrona di casa mi metteva davanti al muso. Le erano morti recentemente i suoi due talpini.

All’età di due mesi, mentre facevo le mie prime piccole escursioni fuori dal mio bozzolo di cane-talpa, sono stato preso e portato via da due tipi, il tipo e la tipa, i quali tra di loro si chiamavano proprio così: ehi tipo, scusa tipa.

Sono stato con loro un paio d’anni in una mansarda in un vecchio quartiere. Poi loro si sono lasciati. Lui l’ha mollata. Non ti reggo più, tipa. Io sono rimasto con lei.

Le prime sere non faceva che tenermi abbracciato, piangere, e dire: bastardo.

Poi c’è stato un periodo in cui si è messa a bere. Da ubriaca, mi prendeva a calci e mi diceva: bastardo.

Effettivamente lei non mi ha mai voluto bene. E’ con lui che io mi divertivo. E’ con lui che mi capivo.

Ma un cane non si sceglie il suo padrone.

Un povero bastardo deve prendere quel che viene.

tratto da “upper dog – le avventure di Otto e Bea – Calepio Press 2008 – disegno di http://www.jennifergandossi.it/home.html

lo stile italiano

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7.13_Onofrio_Martinelli

Lo stile italiano si basa su un’unica, potente promessa: l’apparenza  inganna.

L’italia stessa trova la sua identità nell’inganno delle apparenze.

Lo stile italiano stesso in apparenza è autentico, unico, intelligente e suggestivo; in realtà è falso, riprodotto, stupido e freddo.

In questo, risponde esattamente al target di riferimento, il signorotto italiano, e le sue donnette.

Basta guardare una pubblicità di moda italiana per capirlo: Armani, Versace, Prada, Dolce&Gabbana, Cavalli e Diesel, insieme, non fanno che gridare “vendiamo fumo, la merce più utile in un mondo in cui l’apparenza inganna”.

Il signorotto italiano nelle sue varie configurazione (signorino, signorone, possidente, imprenditore, professionista, dirigente)

è in Italia quel che nel resto dell’occidente è il borghese, ma differisce da questo perché i valori-guida del borghese (onestà, meritocrazia, sobrietà, giustizia, libertà etc) in Italia sono semplici etichette (apparenze) che coprono i meccanismi reali, radicati da secoli, del funzionamento sociale (raccomandazioni, privilegi, corruzione, intimidazione, servilismo, nepotismo, familismo, etc).

Lo stile italiano ha origini nella storia d’italia, nella transizione dalla civiltà classica greco-romana alla civitas cristiana.

Il primo carattere di questa fusione, è il maschilismo:  non è un carattere originario, ma un portato ideologico costruito dai padri della chiesa, così come il secodo carattere, la sacralità delle scritture, e dunque della legge. Maschilista, teologico, codificato. E’ lo stile italiano.

L’italia in apparenza è un giardino con palazzi rinascimentali e borghi storici, un manto verde tra un cielo bianco e una terra rossa; con intorno un mare azzurro.

In realtà l’italia è una discarica di storia e cultura, rifiuti e veleni, un angolo morto di cielo grigio e terra bruciata, circondato da un mare nero.

i valori civili in italia sono rimasti quelli torbidi  della congiura di palazzo, che sia un condominio, o palazzo chigi, la delazione e il doppiogiochismo sono pratiche di massa, maggioritarie,

il carattere principe dell’italiano è il trasformismo, anche istantaneo:

stiamo parlando di un paese la cui maggioranza dei cittadini è capace con grande naturalezza storica di andare a letto la sera fascista a vita e svegliarsi la mattina antifascista da sempre. La vita è un sogno, l’apparenza inganna.

Al lavoratore viene offerta l’apparenza del possedere, il posto di lavoro e la casa, vincolati l’uno all’altro dal più potente strumento di sottomissione, le rate del mutuo;

all’artigiano viene offerta l’apparenza del diventare imprenditore, e la sostanza dell’annegare tra le onde del mercato e/o essere stritolato tra i tentacoli del fisco.

Il lavoratore, persa la dignità del nullatenente, e l’artigiano, persa la libertà del proprio lavoro, non hanno altra strada che quella ormai imboccata:

portare avanti la recita, ingannare se stessi, ingannare gli altri,

e dunque l’interesse del vivere si concentra sull’indossare abiti firmati, non importa se falsamente autentici o autenticamente falsi, basta che garantiscano l’apparenza (o un’apparenza d’apparenza).

Nello stile italiano  identifichiamo l’anima  della società dello spettacolo,

figura ultima del capitalismo  come sistema di sfruttamento finanziario, morale, culturale esercitato da una esigua minoranza  (l’elite) sulla stragrande maggioranza (la massa).

Circense, curtense, ecclesiale, militare, industriale, radiofonico, televisivo, telefonico, informatico: il modo d’aggregazione è il mezzo di sfruttamento, ecco il filo nero del modello storico italiano.

Le radici del modello spettacolare italiano  affondano nella Roma circense. Nerone ha inventato il reality show.

Quindi nella teatralità della liturgia cattolica e nello sfarzo esemplare delle corti rinascimentali.

Nell’età moderna, c’è un solo prodotto del genio italiano: l’opera.

Nell’opera lirica,  l’ideologia italiana è sublimata: l’apparenza  inganna, i fondali sono di cartapesta, i cantanti truccatissimi, ma quanto sono veri i sentimenti che questa apparenza produce!

L’ideologia italiana  promette di confezionare in un mondo di sogno la vita interiore.

Non la vita reale, non il lavoro, non la società civile, ma lo spettacolo, il sogno, il teatro, il gioco saranno gli ambiti nei quali l’italiano investirà sentimenti, credenze, speranze.

Lo stile italiano moderno nasce radiofonico nel ventennio fascista: nello spettacolo del regime fascista, ravvisiamo le origini della moda e del made in Italy come modello di apparenza e consenso sociale.

La matrice radiofonica-fascista dello stile moderno italiano viene travolta dalla guerra e dopo un trentennio di catto-comunismo rinasce negli anni ottanta come made in Italy grazie al mezzo televisivo – e quindi telefonico.

La moda e il design sono la sceneggiatura dello stile italiano contemporaneo,  il calciatore e la velina i suoi interpreti,  il mondo intero il pubblico pagante.

Bellezza, vigore, eleganza, unicità, igiene, tecnologia, ecologia, ironia, leggerezza, beneficenza e arte sono i valori propalati.  Ignoranza, violenza, furbizia,  scaltrezza, arroganza, familismo, possesso e usura del denaro sono i valori sottesi.

Lo stile italiano è il cardine della società dello spettacolo.

La società dello spettacolo si basa sull’immagine,  il suo senso è l’apparenza,  il suo codice la finzione, la sua prassi la recita.

E’  la tragica caricatura di una mitica società ideale platonico-epicurea, basata sul teatro, la ginnastica e le sensazioni del piacere nelle sue varie forme (dell’occhio, dell’orecchio, della gola, del naso, della pelle).

Rispetto alla sobrietà e all’etica protestante del capitalismo industriale, lo stile italiano rappresenta una società al contrario, carnevalesca, dove nulla è quello che appare e nella quale il capocomico viene fatto re (o il re si fa capocomico).

(tratto da Sean Blazer “Lo stile italiano” CalepioPress 2013, immagine: “Composizione di nudi” by Onofrio Martinelli, 1938)

memorie di un vetero patentato

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20

andare in giro in macchina, per qualsiasi ragione,

è sempre stata la mia unica vera attività intellettuale,

un’attività ormai trentennale, d’abitacolo mobile,

sia per lavoro, di fretta, col nervoso e lo stress,

ma anche senza motivo, a zonzo, in total relax;

dopo una vita al volante, a un certo punto metti la retro, ti guardi indietro,

di tutte le cose viste, percepite, assorbite, ti resta una maglia fitta,

un archivio senza ordine, stratificato, confuso, indistinto,

soltanto rimettendoti lì, al posto di guida, per strada,

nel flusso del traffico, riprende vita il flusso di coscienza;

sempre in cerca di qualche linfa, come uno zombie,

fuori ci sarà qualcosa, fuori di me, al di là del parabrezza,

ci sarà un mondo, una strada, un incrocio, esseri umani e architetture,

tracce di vita e cose gettate fuori, che restano come punteggiatura

sui margini non transitabili della carreggiata;

il mio primo parabrezza, rimediato da una lambretta, nel garage del nonno,

montato sul manubrio della saltafoss con elogiabile spirito d’iniziativa puberale:

mi aggiravo nei dintorni dei capannoni pedalando furiosamente,

a volte si trovavano dei giornalini porno gettati da qualche camionista;

primo giorno con la patente, prima  guida da solo, primo incidente,

il curvone delle piscine preso allegro, decisamente allegro, senza paura,

per un attimo ti senti il campione del mondo Rally, su Lancia Stratos Alitalia,

l’istante dopo il mondo ti va a rovescio, l’orizzonte un’elica di biplano,

e sei un neopatentato ribaltato nella 127 color becco d’oca di tua madre;

il deflettore, insuperato capolavoro di tecnologia funzionale,

ti permetteva di fumare tenendo la sigaretta praticamente fuori dall’abitacolo,

sviluppavi un’abilità digitale particolare, con la sigaretta già accesa

dovevi premere un pulsante a molla, ruotare un maniglino e spingere convinto

per vincere la forza sigillante delle guarnizioni di una volta, e tutto in sincronia,

e con armonia, tenendo la sigaretta in asse, per non scrollare la cenere;

in certe strade secondarie, comunali, intercomunali, sconnesse,

ti ritrovi dietro a un trattore del dopoguerra, arancione, a 15km/h,

guidato  da un vecchiaccio in giacca di fustagno, pacificamente tetro,

il grosso sedere saldato al sedile spartano, in lamiera forata, arrugginito,

archetipo dello sgabello che hai in studio, scintillante di design;

anonimi fossati, che ad Aprile vedevi lussureggiare gravidi d’acqua,

e di notte, d’inverno, con la nebbia e il ghiaccio, temevi t’inghiottissero

a un certo punto, nella stagione dei lavori in corso, spariscono,

diventano marciapiedi, o posti auto riservati per i clienti dei negozi

che nel frattempo sono spuntati, dove prima spuntava il granoturco;

quei viadotti tutto cemento, sembravano usciti da un disegno di Sant’Elia,

li aggredivi a tavoletta al volante dell’Alfetta 1800, con la super 98 ottani,

e con gioia demente buttavi il pacchetto di Marlboro fuori dal finestrino:

adesso guidi una Lexus ibrida, elettrica e metano, e non superi i 50,

c’è l’autovelox,  e nemmeno la cicca delle superlight butteresti fuori,

e il viadotto è penosamente vecchio, triste, fragile, sembra più piccolo,

con le nervature d’acciaio arrugginite sotto l’intonaco sgretolato; (continua)

fine prima puntata, tratto da “Andare in giro in macchina è sempre stata la mia unica attività intellettuale” by Leone Belotti per BaDante/CalepioPress 2013; immagine by Virgilio Fidanzahttp://www.virgiliofidanza.it/