the male code – cap2

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MD2SMadre

The male code  (screenplay for Christian Bale) copyright 2013 Calepio Press by Leone Belotti – da un’idea di Gian Franco Bortolotti

cap 2  – la scheda madre  – Detroit, 1976.

«Io non ti pesterò mai, Paki»

«Ti credo, peso il doppio di te»

E’ la risposta che Christian si aspettava. Sono le otto del mattino, stanno andando a scuola.

Come tutte le coppie di amici  tra la pubertà e l’adolescenza, quando camminano insieme, fianco a fianco, hanno qualcosa di comico, che fa quasi tenerezza.

Christian è di costituzione gracile, pallido, delicato, e quasi effeminato, non fosse per quel naso da pugile, o da attore brutto ma sexy come gli ha detto Mary Ann.

Paky sovrappeso, stazzato, la faccia rotonda, i capelli increspati,  il sedere enorme, le mani tozze.

Apparentemente sono due adolescenti come gli altri, che passano i pomeriggi sfidandosi a videogiochi e facendosi forza a vicenda, convincendosi di far parte di una categoria superiore.

Ma sono tre volte più intelligenti della media, e nessuno gliel’ha ancora detto. I loro dialoghi sono farciti di insulti razzisti e sessisti come quelli dei loro compagni di scuola, e anche più feroci.

In realtà sono due intelligenze precoci che si sfidano in partite di tennis verbale, che a volte degenerano in incontri di pugilato psicologico, ma che per tacito accordo non potranno mai degenerare nello scontro fisico.

«Lo sappiamo entrambi Paki, fra tre anni io sarò un superman wasp più alto di te, mentre tu sarai ancora un botolo di cacca molle indù: quello che volevo dire è che nemmeno allora ti pesterò»

«Molto nobile da parte tua, amico mio»

«Sinceramente, Paki, apprezzo molto il fatto di poterti dire oggi qualsiasi cosa nella certezza che tu non approfitterai mai della tua enorme stazza per pestarmi in virtù della tua indole pacifista orientale del cazzo!»

Christian sorride. Gli è piaciuto il finale di frase. Paki è all’angolo, il punto è suo, è chiaro.

Ma improvvisamente Paki torna al centro del ring:

«Quello che hai appena detto mi fa venire in mente una storia che mi ha raccontato mio nonno che casca a fagiolo»

«Falla breve venditore di tappeti, e lascia perdere le scoregge di tuo nonno mangia-fagioli»

«Per farla breve, amico mio, la storia è questa: un grande maestro sufi dopo aver passato tutta la vita a predicare l’amore universale a chiunque, anche agli insetti e alle piante, avendo cura di non fare mai del male a nessuno, nemmeno agli insetti e alle piante, a un certo punto, senza una ragione, pesta a morte il suo migliore amico.

E  vuoi sapere cosa risponde all’amico che in punto di morte gli chiede perché l’ha fatto?»

Christian vorrebbe dire “dai dimmelo”, ma si trattiene, fedele allo slogan  il controllo è tutto che contrassegna i loro pomeriggi alla consolle dei videogiochi.

Aspetta che Paki si spazientisca.

Ma Paky aspetta sereno.

Con voce annoiata, Christian dice: «Con un piccolo sforzo potrei immaginare almeno una dozzina di risposte, probabilmente più profonde o argute della tua storiella di merda sufi, ma dal momento che stai smaniando per dirmelo, e gratificarti mi costa meno sforzo che umiliarti, sarò condiscendente, lo voglio sapere:

cosa risponde il maestro di seghe sufi all’amico pestato e morente?»

«Sei convinto? E’ la tua decisione finale? Accendiamo la risposta?»

«Si, figa d’una vacca sacra!»

Con un’agilità che Christian non si sarebbe aspettato, Paki gli si pianta davanti, e gli punta il suo enorme e tozzo indice tra naso e occhi.

«Allora devo prima pestarti a morte, amico mio, altrimenti non capiresti»

Christian sente il polpastrello di Paki che gli sfiora il setto nasale esattamente là dove è stato spezzato, mentre l’unghia, larga e spessa, arriva a toccargli la prima peluria delle sopracciglia.

Paki ritrae il dito e ride di gusto, in quel suo modo unico, che Christian definisce “tragicamente ridicolo”.

«Fai schifo, ma il punto è tuo» ammette Christian,  e ride, ed è divertito.

Però in fondo ai nervi, dal dito di Paki è scaturito il ricordo del pugno, e la faccia di suo padre, e con la faccia di suo padre le frasi di sua madre,

la mia disgrazia è stata innamorarmi di tuo padre,

frasi che lei gli ripete spesso, senza motivo, come se volesse sintetizzargli, e inculcargli, qualcosa di troppo complesso, va sempre a finire con un  vuoi bene alla tua mamma?

Lui a volte risponde: si. Altre volte: no.

Allora lei dice: se non fossi tua madre dubiterei che sei mio figlio.

E sempre, quando lei dice così, e lo dice spesso, lui pensa a Jenny Mc Bride, la sua “seconda mamma”.

La mamma di Mary Ann, a differenza di sua mamma, non gli ha mai chiesto vuoi bene alla tua seconda mamma?

Invece, lo ha sempre abbracciato, sbaciucchiato, accarezzato, ogni giorno, facendolo sentire avvolto da un morbido calore.

Quelle poche volte che sua mamma lo tocca, lo abbraccia o lo bacia lui sente solo un fascio di nervi rigidi, freddi.

Nonostante (o forse proprio per questo) sua madre, e padre Jacob, e un sacco di gente, nelle loro vite assurde, non facciano che parlare di voler bene, Christian non saprebbe dire cosa voglia dire volere bene a qualcuno,

e quella volta che la vecchia professoressa Gonzalez ha dato un tema del genere, lui ha consegnato il foglio in bianco.

Anche la signora Mc Bride a volte parla di voler bene.

Ma la sua frase è: solo gli amici ti vogliono bene davvero.

Christian guarda lo strano essere umano che cammina al suo fianco.

Paki lo stupisce, oltre a fargli davvero un po’ schifo.

Ma di fatto è l’unica persona a cui dice ciò che gli passa davvero in testa, e con gioia, per gioco.

«Posto che sono in punto di morte per il tuo pestaggio, Paki,  con le mie ultime parole ti confesso che quando non ti conoscevo mi facevi schifo a pelle, ma poi conoscendoti mi sono abituato e non mi fai più schifo a pelle, a parte quando puzzi, cioè sempre.

La tragedia è che più ti conosco, più mi intendo con te, e più mi fai schifo nel profondo, come persona»

«Lo so amico mio, ma ognuno ha i suoi dispiaceri.

Pensa a me, che ti ho sempre ammirato fin da quando non ci conoscevamo e avevi ancora il tuo bel nasino e adesso che hai il naso che sembra il timone di un peschereccio in avaria ti venero e ti adoro come il mio unico e vero amico!»

«Mi fai vomitare, Paky. Spero proprio che la signorina Lewis non  abbia la brillante idea di farci fare il solito tema dal titolo “il mio miglior amico”».

* * *

Il titolo del tema è: “Il momento del pranzo nella tua famiglia”.

Quando mancano dieci minuti alla fine dell’ora, passando tra i banchi, la signorina Lewis, la supplente di lettere, si accorge che il foglio di Christian è ancora immacolato.

«Qual è il problema oggi Christian?»

«Il problema è semplice, signorina Lewis, ma purtroppo è insolubile»

«Spiegati meglio, Christian»

«Questo non è un tema di fantasia, giusto? »

«Esatto Christian, è un tema-verità»

«Il problema è proprio questo. Il momento del pranzo, in verità, nella mia famiglia non esiste»

La signorina Lewis sorride.

Ha gli occhiali e i capelli raccolti a coda di cavallo.

Le gambe sono magrissime, ma non si capisce come siano i fianchi e il seno, perché indossa sempre maglioni enormi.

Ma ha una bocca gigantesca, con delle labbra rosse e carnose.

A Christian fa venire in mente una fotografia che ha visto di nascosto su un giornaletto pornografico.

«Allora farai così, Christian: come inizio del tema scrivi esattamente quello che mi hai appena detto, e poi cerchi di spiegarlo»

Mentre parla, Christian immagina di infilarle il pene in bocca, e ha un’erezione istantanea, incontenibile.

Allora, per disinnescarla, usa la nuova tecnica che gli ha suggerito Paki: immagina il viso della signorina Lewis nella bara, morta, con i vermi che le escono dal naso, come in un film horror.

«Non avere paura. Scrivi la verità»

«D’accordo» risponde Christian, e si tuffa nella pagina iniziando a riempirla rapidamente, senza mai fermarsi.

“Il momento del pranzo nella mia famiglia non esiste per una serie di motivi.

Per cominciare bisogna sapere che mia madre non sa cucinare. Compra solo cibi pronti o scatole di surgelati. Mio padre mangia hamburger quasi crudi, appena scottati.

A causa dei turni in fabbrica, ognuno mangia sempre da solo, sul tavolino davanti alla televisione. Io preferisco mangiare al tavolo, con la tovaglia, i piatti e il bicchiere, anche se il mio piatto preferito, che preparo personalmente, è l’uovo nel portauovo.

La mattina invece mi preparo un the inglese usando un’apposita teiera, anche se questo richiede tempo.

Purtroppo non posso bere latte per problemi di dissenteria originati dalla gastroenterite che mi ha colpito all’età di due anni portandomi in punto di morte.

Secondo la signora Mc Bride, la causa del problema è stato il seno piccolo di mia madre, che invece di allattarmi nello svezzamento mi ha nutrito con latte in polvere.

Recentemente ho sentito al telegiornale che questo latte in polvere sta causando la morte di molti bambini in Africa e la food&drug administration ha deciso di proibirlo nel territorio degli Stati Uniti”

Il suono della campanella lo prende alla sprovvista e interrompe la sua scrittura di getto.

Alza gli occhi, e il suo sguardo incrocia quello dell’insegnante.

Velocemente, mentre i suoi compagni già si alzano, aggiunge:

“Nel momento del pranzo, si vede se una famiglia esiste, o se sono soltanto persone che usano lo stesso frigorifero, come nel mio caso”.

Nel consegnarle il tema, Christian dice allegramente: «Mi è venuta fame!».

La signorina Lewis lo delizia di un enorme sorriso.

Per la prima volta da quando frequenta la scuola, prova qualcosa di simile alla felicità.

Il giorno dopo attende con ansia l’ora di lettere.

Si è preparato sulla lezione del giorno e vuole fare delle domande.

Ma la signorina Lewis entra in aula con addosso un’espressione funebre e per prima cosa annuncia alla classe che padre Jacob, che è anche preside della scuola, ha deciso di non confermare il suo incarico di supplente, e pertanto quella che sta per iniziare è la sua ultima lezione alla scuola di St.Paul.

Quindi va alla lavagna e inizia a riempirla di nomi di scrittori e titoli di libri.

Sono i libri che lei consiglia ai ragazzi di leggere.

Christian passa tutta l’ora a spiarla.

All’uscita della scuola la insegue, tenendosi a distanza.

Dopo due isolati,  si fa coraggio,  la raggiunge e le dice: «Signorina Lewis, voglio dirle che mi dispiace non averla più come insegnante».

Solo dopo aver parlato si accorge che lei, dietro gli occhiali da sole, ha gli occhi umidi.

Ma subito gli sorride: «Il tuo tema fatto in dieci minuti era bellissimo. Da dieci!»

«Non l’avrei mai fatto senza il suo consiglio. Avrei consegnato in bianco, e avrei preso la solita nota, con relative sberle a casa!»

Si pente subito di aver parlato troppo.

Lei ora lo guarda, e sta pensando qualcosa.

«Come te lo sei rotto il naso?» gli chiede.

Christian alza le spalle.

E’ una domanda che gli fanno spesso, e ha la risposta pronta:

«Ho fatto a pugni con uno più grande di me»

Ma la signorina Lewis non gli crede, Christian lo percepisce chiaramente da come lo fissa mordendosi le labbra.

Poi le sue grandi labbra tornano a sorridere:

«Ti piacerebbe un giorno venire a pranzo da me? Un vero pranzo?»

«Moltissimo!»

«Bene! Ti aspetto martedì… no, mercoledì della settimana prossima, dopo la scuola, va bene?»

«Benissimo!»

Rapidamente gli dà l’indirizzo e il numero di telefono.

«Te lo ricorderai?»

Christian strizza gli occhi e annuisce.

«Posso ricordare senza sforzo fino a cento numeri di telefono, e attualmente ne ho in memoria soltanto venticinque»

«E allora come fai a sapere di poterne ricordare cento?»

«Ho fatto delle prove con una pagina dell’elenco del telefono.

Per un intero pomeriggio ho continuato a leggere e ripetere i primi 100 numeri. Dopo una settimana ricordavo esattamente i 100 numeri. Poi dimenticarli è stato più difficile»

«Sei un ragazzo speciale, Christian Code.

Ho letto la tua scheda didattica. Mercoledì te ne parlerò. Ora devo scappare, ma prima dimmi una cosa: posso fidarmi di te? Sei capace di tenere i segreti?»

«Si, ho un mio metodo»

Dice delle cose incredibilmente buffe, questo ragazzino.

Ha la capacità di farla ridere. Ellie Lewis, l’insopportabile e complessata studiosa con un corpo da pin-up che decine di ragazzi hanno corteggiato fino all’esaurimento, lo trova delizioso.

Con quel naso da pugile su un viso effeminato.

«Siamo amici noi due?»

Christian scuote la testa su e giù.

«Allora dimmi ciao»

«Ciao!»

«Dimmi: ciao Ellie!»

«Ciao Ellie!»

* * *

«Perché no?» chiede Paki.

E’ mercoledì, sono appena usciti da scuola.

«Perché ho altro da fare» risponde Christian.

«E cos’hai di meglio da fare che venire con me a partecipare ai test di prova  del joystick Atari?

Sai quante cartoline ho dovuto mandare per essere selezionato? E posso portare un amico»

«Devo andare a scoparmi tua sorella, se proprio vuoi saperlo»

«Vaffanculo, stronzo d’un irlandese mangiapatate!»

«Vaffanculo tu, ciccione del cazzo al curry!»

Camminano in silenzio solo per pochi passi.

Poi Paki dice: «Facciamo un patto: tu mi dici dove zocca devi andare oggi, e  domani io ti dico tutto del joystick»

«Questo è un ricatto, Paki, è indegno di te. Faccio finta di non aver sentito.

Hai ancora due isolati e undici minuti per dirmi cos’è questa stronzata del joystick, che del resto non mi interessa granché, poi tu andrai a casa tua, e io per i fatti miei»

«Ti dico che è una rivoluzione, amico mio.

Cambierà la tua vita, il tuo modo di giocare ai videogiochi, e anche il tuo modo di farti le seghe»

«Spiegati, e possibilmente con chiarezza»

«Ok. Prova a pensare a quando tieni in mano il tuo adorato cazzo»

«Si»

«Bravo, lascia perdere il comando dell’eject. Hai presente la sensibilità direzionale? Puoi farlo roteare in ogni direzione, come una contraerea montata su un perno girevole, ok?

Se sbuca una pollastrella a ore 11, o  a ore 4, non hai alcun problema a puntarla direttamente, non hai bisogno delle coordinate per innaffiarla di sperma. Ci sei?»

«Si»

«Bene, il nuovo joystick funziona esattamente come il tuo cazzo.

E’ finita l’era dei quattro pulsanti con movimento rigido ortogonale su-giù e destra-sinistra, che ti costringe a fare movimenti a scalino quando vuoi fare un movimento diagonale.

Riesci a capire cosa significhi?»

«Sì, Paki, lo capisco benissimo, significa che tu puoi cominciare a masturbarti con schizzo nord-ovest seguendo il tramonto mentre io vado a scoparmi tua sorella fino all’alba con rotta a 90 gradi nel culo»

«Bravo. Riderai un po’ meno quando io tra qualche mese, dopo opportune modifiche, mi scoperò a distanza la tua immacolata Mary Ann telecomandando il suo vibratore con il mio grosso uccello-joystick»

Christian si ferma. Paki fa ancora due passi, poi si gira a guardare l’amico:

«Beh? Cosa fai lì impalato, una nuova iniziativa immobiliare?»

«Paki, te l’ho già detto, e te lo ripeto: lascia stare Mary Ann, lei non c’entra con le nostre stronzate, per me è come fosse una sorella»

«E mia sorella, allora? Lei è davvero mia sorella!»

«Hai ragione, scusami Paki, non dirò più niente di schifoso su tua sorella»

«A volte sembri quasi umano»

Poco dopo, serissimo, Christian dice: «Non farti ingannare dalle apparenze. A proposito, come sta quella vacca di tua madre?»

Costernato, Paki risponde:

«Beh, sai, ci è rimasta parecchio male ieri sera quando tornando a casa ha beccato mio padre che si faceva succhiare l’uccello dal tuo»

Ridono di gusto, si scambiano il cinque.

«Ok Paki, il punto è tuo. Ora ti restano quattro minuti per dirmi perché il nuovo joystick dovrebbe cambiare il mio modo di farmi le seghe»

«Te lo spiego subito, amico mio. Facciamo un esempio concreto:

la signorina Lewis. Sai cosa ho pensato ultimamente guardando la bocca della signorina Lewis?»

«Posso immaginarlo Paki, tutta la scuola non pensa ad altro»

«Io immaginavo qualcosa di più sofisticato.

Una sorta di guanto in lattice, come un preservativo, ma ricoperto di sensori elettrici che emettono piccole scariche a voltaggio variabile.

Ora immagina che tutti noi maschi della classe, ognuno al proprio banco, indossiamo questo guanto, con i cavetti elettrici che ci escono dalla patta e corrono sul pavimento fino alla cattedra dove sono collegati al nuovo Joystick.

Credi che la signorina Lewis sarebbe capace di fare un pompino al joystick, infilarselo fino in gola facendoci godere in trenta senza muoversi dalla cattedra?»

«Niente male, Paki! Una cosa del genere potrebbe risolvere molti problemi nell’economia del pompino su scala mondiale. E come chiamerai la tua compagnia? Paki Industrial Cumshot?»

«Non temere, non ti lascio fuori, la chiameremo Paki&Christian electronic sucks.

Aumentando il voltaggio, potrebbe anche funzionare come alternativa alla sedia elettrica, almeno creperesti godendo come mai ti è successo in vita»

«Si Paky, e i condannati gay rei confessi come te potrebbero sempre optare per un vibratore da 2000 volt nel culo!»

«Vedi Christian che le idee non ti mancano, quando accetti la tua omosessualità?

Come fai a essere così sicuro di non essere gay? Per me sei gay. Tu ancora non lo sai, ma sei gay»

«Può darsi, ma non sarà certo un gay color merda come te a convertimi.

E siccome tra quaranta metri le nostre strade si divideranno, ti confido un segreto: sto giusto andando dalla signorina Lewis a chiederle se mi aiuta a consolidare la mia identità sessuale facendosi sbattere a orgasmo multiplo fino a prendere fuoco per autocombustione vaginale.

Spero che abbia un estintore in camera da letto»

«E’ questo che mi piace di te Robert Code, che sei un grande sognatore»

«L’hai detto, sottospecie di buddha per turisti. Ti saluto Paky, ci vediamo domani»

* * *

«Ciao Christian»

«Ciao Ellie»

Christian si sforza di guardarla in faccia, ma i suoi occhi volano sul suo corpo: la signorina Lewis è irriconoscibile.

Senza occhiali, con i lunghi capelli neri sciolti, con ai piedi degli zoccoli alti, una t-shirt aderente e i jeans stretti è un’altra donna.

Una superdonna. Una bomba.

Ha delle tette enormi, pensa Christian, più grandi di quelle di Jenny.

«Hai fame?»

«Non tanto»

«Nemmeno io. Allora parliamo un po’, vieni»

Lo prende per mano e lo porta in camera da letto.

«Ti va di sdraiarci un po’ sul letto a chiacchierare?»

Christian è sconvolto, ma riesce a dire: «Si, mi va»

«Togliti le scarpe»

«Ok»

Si siede sul letto e si slaccia le stringhe. Deve togliersi anche i calzini? Si china più che può per sentire se gli puzzano i piedi.

Nell’aria c’è uno strano odore, che ha già sentito da qualche parte.

Poi vede sul comodino il posacenere con lo spinello fumato a metà e capisce. Marijuana.

Ecco perché lei parla così lentamente e ha gli occhi socchiusi.

«Togliti anche i pantaloni, starai più comodo. Li tolgo anch’io»

Lei è in piedi proprio davanti a lui. Lo spazio tra il letto e l’armadio non è molto.

Davanti al suo naso, lei si slaccia i jeans e si sfila la t-shirt.

Non indossa il reggiseno!

Le areole sono chiare, grandi come cialde, i capezzoli turgidi, rossi.

Christian ha un’erezione furibonda.

«Ma…ho paura che…»

«Non avere paura, non c’è niente di cui ti devi vergognare»

Gli prende le mani e se le porta sui seni.

Christian viene di getto, nei pantaloni che non ha ancora tolto.

«Io…»

«Shhh, non c’è nessun problema, è normalissmo»

Gli slaccia la cintura e gli sfila le mutande insieme ai pantaloni, poi gli toglie la maglietta e dolcemente lo sospinge sul letto.

«Chiudi gli occhi, rilassati, distendi le braccia»

Christian finge di chiudere gli occhi, ma si limita a socchiuderli.

Il suo pene adesso è floscio e bagnato.

Non ha la minima di cosa stia per accadere.

Quando la gigantesca bocca della signorina Lewis ingoia in un colpo solo tutto il suo apparato genitale, pene e testicoli, spaventato, fa per sollevarsi, ma lei gli mette una mano sul petto.

Christian vede che lei con l’altra mano si tocca tra le gambe.

Ora la sua bocca si muove su e giù, lentamente, e Christian si accorge di avere una nuova erezione.

Poi lei accelera il movimento, e Christian viene per la seconda volta, e per la prima volta in vita sua prova quella scossa che corre in un lampo dai testicoli al cervelletto per  scaricarsi in ogni singola cellula del corpo con un piacere totale.

Ora che l’ha provato, capisce che l’orgasmo maschile è qualcosa di completamente diverso, per forza e intensità, dal semplice eiaculare.

Non si è mai sentito così bene in vita sua.

Gli sembra di essere stato scaraventato altissimo in un cielo rovente, per poi ricadere profondissimo in un mare di freschezza.

Le palpebre gli si chiudono, l’ondata di sonno gli penetra nelle viscere, e anche questo è un piacere per lui nuovo.

Quando riapre gli occhi non saprebbe dire se è passato un minuto, un’ora o un secolo.

Lei è lì, sdraiata sul fianco sinistro, nuda, completamente nuda.

Sta fumando il suo spinello e lo guarda con occhio divertito.

«Come stai giovane stallone?»

«Da Dio!» risponde Christian.

Come ipnotizzato, non riesce a staccare gli occhi dal pube di lei interamente ricoperto da un enorme cespo di peli nerissimi, fitti, lunghi come capelli.

Lei solleva la gamba destra dritta verso il soffitto e per la prima volta in via sua Christian vede dal vivo quella che Paki chiama “la miniera d’oro che si apre nella foresta”.

Christian è di nuovo eccitato. Lei sorride.

Si infila due dita in bocca, poi le infila tra le gambe, e infine gli monta sopra.

Christian percepisce distintamente il mistero umido, caldo e palpitante che gli avvolge il pene.

Fa in tempo a pensare sto scopando, e subito viene, giusto un istante prima che lei arrivi a fondo corsa.

Spalanca gli occhi, sente le sue grandi labbra che aderiscono al suo inguine.

Ho scopato pensa, ma non ha provato niente di paragonabile al piacere sperimentato prima, quasi non si è nemmeno accorto di venire, un semplice fatto idraulico, come pisciarsi addosso.

Quasi spaventato, ora si rende conto di aver perso la percezione del proprio pene, non  saprebbe nemmeno dire se è ancora turgido, o se si è sciolto dentro di lei.

Evidentemente la sua faccia tradisce le sue paure, perché lei gli sussurra dolcemente:

«Va tutto bene, Christian, non avere paura».

Christian immagina che adesso lei si staccherà da lui, e andrà in bagno a lavarsi.

Nei film è questo che accade dopo che due hanno scopato.

Invece lei resta incollata a lui, e inizia a muoversi in un modo nuovo,  piano, gli si struscia addosso, come facendo attenzione a non farsi sgusciare fuori il suo pene.

Gli prende le mani, se le porta prima sui seni, poi sulle natiche.

«Stringimi»

Questo è fantastico. Le mani dalle dita affusolate di Christian corrono deliziate in quel fantastico campo giochi che comprende i fianchi, le natiche, le cosce e la magica fenditura ano-vagina.

«Ti piace?»

«Moltissimo»

Poco per volta, lei ricomincia a muoversi su-giù, staccandosi leggermente dal suo pube per poi pressarlo nuovamente,

e Christian, con le mani incollate alle sue natiche, capisce che deve assecondare i suoi movimenti attirandola a sé.

Ora vede che il suo pene è di nuovo turgido, i movimenti di lei si fanno sempre più rapidi,

e con stupore sente che lei ad ogni movimento produce una specie di profondo mugolìo che le sale dalla gola, come un rantolo.

Adesso sto davvero scopando

. Lei è ritta su di lui, la testa rovesciata all’indietro.

Poi si china su di lui, con le mani si aggrappa alla testiera del letto.

I suoi seni sono gonfi, le areole, che prima erano chiare e distese,  ora sono rosse, come rattrappite, i capezzoli grossi come ditali.

«Succhiami i capezzoli, Christian»

Lui si incolla come una ventosa, lei lo lascia succhiare un po’, poi si ritrae, e gli offre l’altro seno, lui capisce, e inizia a succhiare alternativamente ora un seno ora l’altro, sempre più forte.

Improvvisamente lei emette un grido acuto.

Poi un altro, più basso e lungo, come il guaito di un cane, e un altro ancora.

Con voce rauca, che sembra un rantolo, dice:

«Vieni Christian, vieni anche tu».

Gli stringe la testa tra le mani e gli infila la lingua in bocca.

La sua spinta pelvica diventa furiosa. Il letto cigola.

Gli bacia il naso, il mento, la gola, gli occhi, gli lecca tutta la faccia come una cagna.

Gli porta una mano sulla gola, con il medio gli preme la carotide, con il pollice il pomo d’Adamo, su e giù, premendo sempre più forte.

Questa volta Christian sente partire la scossa dalla punta dei piedi, le gambe si contraggono, il bacino sembra esplodere e per un istante lunghissimo prova una sensazione incredibile, concentrata sul pene,

una specie di solletico crescente, sempre più piacevole, fino a diventare insopportabile, proprio come il solletico, tutto il suo corpo è contratto in preda a un unico crampo,

e allora vorrebbe fermarsi, fermarla, uscire da lei,

ma lei glielo impedisce, lo domina, lo sovrasta, lo tiene fermo  inchiodandogli i polsi al letto,

e spinge, spinge sempre più forte, come un martello che lui non può fermare, come il pugno di suo padre,

e Christian sente arrivare il panico.

Si mette a urlare.

Lei sorride, e finalmente smette.

* * *

«Avevi ragione, Paky»

«Su cosa, amico mio?»

«Penso proprio di essere gay»

«Ah si? E’ questo che hai fatto ieri? Sei andato a prenderlo nel culo da un negro con tre gambe? E ti è piaciuto da morire!»

«Non proprio. Come ti ho già detto, sono andato dalla signorina Lewis, ma più che andato sono venuto,  sono venuto quattro volte in meno di un’ora, due in bocca, e due in sorca, e ho provato quattro tipi di orgasmo completamente diversi, tre dei quali assolutamente nuovi»

«Racconta»

«Uno, che conosciamo già, l’orgasmo da eiaculazione precoce, identico a una qualsiasi sega veloce, quelle che ti fai anche sovrappensiero, mentre pensi ad altro: capisci cosa intendo?»

«Perfettamente, amico mio. Ti ho mai detto di quando mi faccio una sega mentre faccio i compiti di matematica, con un occhio alla partita in tv?»

«Non mi interrompere, segaiolo. Mi fai perdere il filo della sborrata»

«Ok, sentiamo questi orgasmi inediti»

«Due, ancora un orgasmo da eiaculazione precoce, ma di tipo diverso, inconsapevole, senza alcuna sensazione di piacere, senza nemmeno sapere se il cazzo è duro o molle, sperduto nella figa gigante, una roba orribile, come pisciarsi addosso, dovresti saperne qualcosa»

«Una specie di polluzione a mente serena?»

«Esatto Paki, un fatto puramente idraulico, quasi fastidioso»

«E questo fatto idraulico quasi fastidioso ti è successo nella figa della signorina Lewis?»

«Te lo sto dicendo»

«Se quello che dici è vero, amico mio, temo proprio che tu sia gay»

«Aspetta, Paki. Orgasmo numero tre: la fine del mondo. La scheda madre. Un elettroshock che ti rivolta tutto il corpo.

Un’estasi, e poi ti addormenti a piombo, come Dio dopo aver creato il mondo, un piacere sublime.

Mi rendo conto che non puoi capire, e mi chiedo se proverai mai qualcosa del genere nella tua vita, sfigato come sei»

«Non so, da come l’hai descritto, mi ricorda il piacere anale di certe cagate giganti che faccio dopo il mal di pancia.

Sei sicuro che la signorina Lewis non avesse i baffi e una grossa nerchia infilata nel tuo culo, quando hai provato questa estasi sublime?»

«Ti dico che non sono sicuro di niente, dopo aver provato l’orgasmo numero quattro. Uno shock. Pensavo di crepare.

Un piacere talmente forte che si trasforma in una specie di crampo gigante, diventando insopportabile, come una tortura, una violenza.

Una situazione assurda.

Tu non ce la fai più, ma lei continua a pompare, e ti sembra di scoppiare. Ti giuro.

Pensavo che mi scoppiasse il cuore.

E non potevo fare niente, lei mi teneva bloccato, la sua faccia mi sembrava quella di un mostro preistorico, pensavo volesse ammazzarmi come fanno i cani con i gatti, sbattendomi di qua e di là sempre più forte.

Parlo sul serio Paki. E non so cosa pensare. Ho dormito un cazzo, nonostante le quattro sborrate.

Non credo che tornerò a trovarla. Non so se puoi capire.

Anzi, sono certo che non mi puoi capire, e questo dialogo è completamente inutile»

Paki invece capisce.

Non solo è intelligente, malizioso e furbo, ma anche sensibile.

Capisce che Christian è davvero scioccato, non sta scherzando, non sta raccontando le solite balle.

«Per questo pensi di essere gay, amico mio? Io non credo. La tua scheda madre non c’entra. Ti conosco troppo bene, la tua scheda madre è uguale alla mia, hai la figa stampata in testa come un imprintig indelebile. Non è questo il problema»

«E quale sarebbe allora?»

«Semplicemente, hai subito una violenza sessuale»

* * *

Fine secondo capitolo – PROXIMA PUBLICATIO – MART 16 ApRIL

INDEX

parte prima

1 – il codice sorgente                       Detroit, 1974.

2  – la scheda madre                        Detroit, 1976.

3 – la periferica di controllo            Detroit, 1978.

4  – il sistema operativo                   New York, 1980.

5  – la relazione in copyright           Boston, 1982

6  – la scheda di memoria                Detroit, 1984

parte seconda

7  – la donna software                      Sylicon Valley, 1986

8  – la donna telefonia mobile          NY-London, 1988

9  – la donna pixel                             NY-Paris, 1990

10  – il maschio hacker                     Los Angeles, 1992

11 – il dominio del maschio web     Mosca, 1994

12  – il maschio server                     NY-Bejing  1996

imago: -TABIDAN- Aracno 2013-Stampa su legno 2.5m x 2.5 m 

 by PMT+Lughì

http://ordinearcano.tumblr.com/

 

aqua sancta

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acquasanta

in crucis signo imus

solutis vinculis et emancipatis omnium dominiis

qui ut calamitate bona vorant et dissipant qua assiduo sudore plebes ultimae ferunt

agricolae, opifices, artifices, boni viri, solertes, aequi

sicut vermes reptantes fame hodie confecti

cras resurrecturi in crucis signo

ad hoc aqua sancta est et sitim convertit in vim

propter subvertendam iniquam civitatem

EGO VOS SUM 

nel segno della croce andremo liberi dalle catene che ci tengono succubi dei padroni di ogni cosa

che come un flagello divorano e dilapidano ogni bene prodotto con il sudore della fronte dagli ultimi della terra,

contadini, artigiani e artisti, uomini buoni, capaci e giusti,

oggi ridotti alla fame e a strisciare come vermi

domani pronti a risorgere nel segno della croce

perciò l’acqua è santa e converte la sete in forza

per sovvertire una società ingiusta

IO SONO VOI

in cross sign we’ll go free from chains that connect us like slaves to everything’s owners

who like a calamity waste every good produced by earth’s lowest

farmers, craftsmen, artists, good, able and just men,

today creeped along the ground

tomorrow rebirthing in cross sign

that’s why water saint is and changes thirst in strenght

just to  subvert an unfair society

I’M YOU

testo tratto dall’enciclica “RERUM NOVISSIMARUM”

cap1, par2, by Leone XIV – CalepioPress© 2013

imago: AQUA SANCTA by Athos Mazzoleni / 54 Biennale di Venezia 2011,

visibile alla trattoria i 3 gobbi, via Broseta, Bergamo

http://www.foodforeyes.com/

il cane che correva sull’acqua

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UpperDogNuota

Mi chiamo Bea Lee e sono nata in Manciuria.

Fin dalla nascita mi hanno addestrata a correre sull’acqua.

Per tutta l’età dello sviluppo le mie zampe sono state fasciate molto strette tra due tavolette di legno.

Lo scopo era quello di costringere le mie zampe a diventare simili a quelle delle anatre. Con me c’erano altri cani di ogni razza.

La selezione è stata durissima. Dopo tre anni di esercizi quotidiani riuscivo a fare più di cinquanta metri di corsa sull’acqua.

Il mio maestro lanciava un bastoncino nel lago io correvo a prenderlo e glielo riportavo.

La difficoltà più grande è nel momento dell’inversione di marcia.

E’ lì che rischi di andare a fondo.

Un bel giorno è arrivato un uomo d’affari italiano.

Dopo aver visto quello che sapevo fare mi ha comprata.

Mi ha portata a casa sua, a Sarnico.

Il sabato mattina ci siamo recati sul molo.

Il mio nuovo padrone ha lanciato un bastoncino nel lago e io sono andata a prenderlo di corsa.

Un vecchietto dell’associazione marinai di Sarnico era sul molo a guardare e scuoteva la testa.

Allora il mio padrone ha lanciato di nuovo il bastoncino e io di nuovo sono corsa a prenderlo e a riportarlo. Ma il vecchietto scuoteva ancora la testa.

Per la terza volta ho dovuto correre sulle acque del lago.

Quando sono arrivata sul molo, il vecchietto, scuotendo la testa ha detto:

“Quel cane lì non impara più a nuotare”.

tratto da “Upper Dog – Le avventure di Otto e Bea”  Calepio Press 2008

disegno di http://www.jennifergandossi.it/home.html

the male code – cap1

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MaleCode1byAthosFFE

screenplay for Christian Bale by Leone Belotti – CalepioPress © 2013 – da un’idea di Gian Franco Bortolotti

cap 1 il codice sorgente  Detroit, 1974.

E’ il primo sabato pomeriggio di sole dopo mesi di pioggia grigia sui quartieri operai di Detroit.

Christian Code, undici anni, magro, un po’ piccolo e gracile per la sua età, americano di terza generazione, figlio di operai di origine irlandese,

da due ore è costretto a starsene seduto in silenzio sul primo banco della parrocchia cattolica di St.Paul, aspettando “il momento più importante” del suo “cammino di cristiano”.

Dei trenta ragazzi della sua classe che devono confessarsi in preparazione della cresima, lui è stato sorteggiato per ultimo.

I suoi compagni uno dopo l’altro si inginocchiano davanti a padre Jacob, seduto su una specie di trono accanto all’altare, e gli confessano i propri peccati.

Christian ha l’espressione assorta, e la mente altrove.

Sta cercando di eseguire, scrivendolo a mente, il lungo compito-questionario di grammatica che deve consegnare lunedì.

Arrivato a metà, si blocca su “fai un esempio di domanda retorica e spiegala in cinque righe”.

Si mette a guardare a testa in su gli opprimenti e scuri affreschi delle navate della cupola.

I santi gli sembrano morti viventi intenzionati a calargli addosso dall’alto come zombie.

Poi, come sempre, la sua attenzione si fissa sul martirio di San Pietro, sul gesto del soldato che colpisce la figura accartocciata a terra.

Una scena che vede spesso in casa, quasi ogni fine settimana.

Suo padre che picchia sua madre, sberle, calci.

E improvvisamente, pensando a sua madre presa a calci da suo padre, gli sale quel suo  sorriso da saputello. Ha appena trovato un esempio perfetto di domanda retorica.

Tu dov’eri il giorno dell’assassinio Kennedy?

Come spiegazione, a mente, di getto, scrive:

“Trattasi  di una delle frasi che mia madre rinfaccia a mio padre sia in casa che in pubblico,

e trattasi di domanda retorica in quanto nel quartiere lo sanno tutti, vicini, colleghi, parenti, dov’era mio padre Robert Code quel giorno del 1963,

mentre a Dallas moriva di morte violenta e prematura il presidente che voleva cambiare l’America e a Detroit, in un ospedale pubblico, in modo altrettanto violento e prematuro, nascevo io, Christian Code,

rischiando di uccidere sia mia madre che me stesso,

dopo un’agonia durata sei ore

iniziata quando mia madre si è trascinata sanguinando in strada, dove è stata raccolta da una Ford della polizia municipale che l’ha portata a sirene spiegate all’ospedale.

Come tutti sanno mio padre quel giorno era al pub, ubriaco, a guardare l’assassinio Kennedy in Tv.”

Christian è soddisfatto.

Immagina la reazione scandalizzata della vecchia signorina Gonzalez, l’insegnante di lettere.

Si mette a ridere.

* * *

Quando finalmente arriva il suo turno, la chiesa è vuota e padre Jacob è già molto stanco.

Padre Jacob non è un prete esemplare.

E’ avido, meschino e vendicativo.

Autoritario con donne e bambini, servile e untuoso con potenti e possidenti.

Ma non è un pedofilo.

Gli aspetti morbosi della confessione non l’hanno mai toccato. Semmai annoiato.

Da tutto il pomeriggio è alle prese con le confessioni dei ragazzi della classe 63, in preparazione della cresima.

Non vede l’ora di chiudere la chiesa, ritirarsi in sagrestia e versarsi un bicchiere di vino in santa pace.

Imbullonare la morale cattolica nelle testoline cocciute dei figli degli operai è un lavoro massacrante, snervante e ripetitivo.

Un lavoro di chiodo e martello, peccato e senso di colpa, un sacramento dopo l’altro, come in catena di montaggio.

Sempre le stesse domande, sempre le stesse risposte.

Dopo le formule di rito, e i peccati veniali, c’è la domanda clou.

«Ti tocchi, figliolo?»

Negli ultimi vent’anni padre Jacob ha fatto migliaia di volte questa domanda a intere generazioni di ragazzini di origine irlandese, italiana e ispanica.

La reazione dei  ragazzini, la prima volta, è sempre la stessa:

un silenzio pesante, carico di vergogna e senso di colpa, sul quale calare incalzante e risolutiva la domanda vera, che fa superare ogni impasse:

«Quante volte al giorno?»

Ma questa volta, appena fatto la domanda, un campanello d’allarme gli suona in testa.

C’è qualcosa che non va, c’è qualcosa di diverso, di sbagliato, qualcosa che gli è sfuggito.

Padre Jacob si accende d’attenzione, riavvolge rapidamente il nastro (“Ti tocchi, figliolo? Si, padre! Quante volte al giorno?”) e  capisce.

Quel “si, padre!” è stato troppo immediato e naturale, colloquiale.

Come se gli avesse chiesto “Sai nuotare?”.

Doveva aspettare a porre la domanda definitiva, soppesare quel “Si, padre!”.

Ha commesso un errore, si è lasciato ingannare dal suo stesso metodo, dalla tecnica ripetuta meccanicamente.

Ma ormai è troppo tardi.

Dall’alto scranno di legno, la sua figura imponente, in tonaca nera,  si erge troneggiando sul ragazzino esile, dai lineamenti delicati, inginocchiato davanti a lui a mani giunte e capo chino su un piccolo cuscino color porpora.

Ora lo riconosce, e sa di essere caduto in una trappola.

Christian Code, il piccolo genio, figlio di operai Chrisler.

Lui e l’altro “disadattato” della scuola, il pakistano sudato che tutti chiamano Paky, qualche mese prima sono risultati “tecnicamente dei geni” , con quoziente intellettuale superiore a 150, nell’indagine svolta dall’istituto di psico-sociologia sui ragazzi della scuola della parrocchia.

Il prof.Mc Ewan gli ha suggerito di parlare alle famiglie, per invitarle a far proseguire gli studi ai due ragazzi.

Ma lui non l’ha ancora fatto.

L’esperienza gli dice che un figlio troppo intelligente, nelle famiglie povere, può essere una disgrazia.

Ora lo osserva con attenzione.

Il giovane Code, dopo aver risposto con immediatezza alla domanda “Ti tocchi?”, ora, per rispondere alla domanda “Quante volte al giorno?”,  pare assorto in una  riflessione complicata.

Ha gli occhi chiusi e muove velocemente e silenziosamente le labbra, come stesse pregando.

Infine alza il viso, e per un istante padre Jacob si sente quasi intimorito, affascinato.

L’espressione di Christian è il ritratto dell’innocenza infantile.

«Più o meno 500 volte al giorno, padre»

Padre Jacob non reagisce.

Uno schiaffo a mano aperta sarebbe la soluzione più ovvia.

Ma nel dubbio, si trattiene. Sospira.

Paziente, chiede: «Così tante volte?». Christian annuisce.

«Ogni giorno?»

«Si padre, e quando faccio il bagno, aumenta la media!»

Padre Jacob si sporge in avanti. Christian vorrebbe ridere.

Padre Jacob sta cambiando colore e diventando rosso di rabbia come il gatto Silvestro.

«E perché mai secondo te, figliolo, il padre confessore ti dovrebbe chiedere quante volte al giorno ti tocchi?»

Christian non si lascia ingannare dalla voce controllata: lo sguardo del prete è un fucile puntato sui suoi occhi, pronto a far fuoco.

«Non ne ho idea, padre»

«Pensaci!» sbotta padre Jacob calando una manata rabbiosa sul grosso bracciolo di legno intarsiato.

Christian sussulta e spalanca gli occhi.

Si sforza di reggere lo sguardo infuocato di padre Jacob, ma dentro di lui si insinua la paura.

Con voce fin troppo incerta, timorosa, chiede:

«Vuole sapere se mi tocco in maniera peccaminosa, padre?»

Ma padre Jacob continua a fissarlo con espressione tetra.

Allora Christian si morde le labbra, e improvvisamente la paura, la paura di essere picchiato, lo divora.

Christian è come un gatto immobilizzato.

Cerca di reggere gli occhi fiammeggianti, mentre nel suo cervello passano rapide una serie di opzioni sulla prossima cosa da dire:

«Vuole sapere se pratico la masturbazione?»

«Vuole sapere se mi tocco il pene indurito pensando alla signora McBride fino a disperdere il seme nei pantaloni o nel fazzoletto o nel water?»

Quando parla, la sua voce è stridula, e la frase assurda, surreale in bocca a un ragazzino:

«Con ogni probabilità il padre confessore vuole sapere se disperdo il seme»

Lo sguardo di padre Jacob è imperscrutabile.

Christian deglutisce. Con un filo di voce, a capo chino, mormora: «Si, padre, disperdo il seme, dalle cinque alle dieci volte al giorno, più la notte, nei sogni»

Padre Jacob lentamente si rilassa.

Un’altra dura giornata di lavoro in archivio.

La sua vecchia carcassa di soldato di Cristo si affloscia sui velluti rossi di quella specie di trono in cui è assiso.

Ora non resta che comminargli la punizione (ne reciterai venti ogni sera) dopo avergli  fatto recitare l’Ave o Maria.

«Ave o Maria» dice, invitando Christian a recitare la preghiera ad alta voce.

E Christian obbediente recita:

«Ave o Maria, piena di grazia, venga il tuo regno e sia fatta la tua volontà…»

Padre Jacob si alza di scatto, rovesciando lo scranno.

Christian schizza a sua volta in piedi facendo un balzo indietro, schivando il braccio proteso del prete, ma non il suo indice accusatore:

«Vattene a casa, Christian Code! E dì a tuo padre che domani lo aspetto in sagrestia dopo la messa. Tuo padre! Non la mamma!»

La sua voce di tenore riecheggia nella navata della chiesa, mentre Christian raggiunge quasi di corsa l’uscita.

Padre Jacob risolleva lo scranno ribaltato.

In tanti anni, non aveva mai sentito una bestemmia del genere.

Ave o Maria, venga il tuo regno!

Entrando in sagrestia si sfila la tonaca e la getta sul cassettone.

Da una madia prende un bicchiere e la bottiglia di vino italiano.

Si versa un bicchiere e lo vuota d’un sorso. Poi un secondo.

Infine si sforza di ricordare il volto del padre di Christian, inutilmente.

* * *

Gli occhi di Robert Code sono incollati sulle natiche formose della giovane donna  che al di là del banco si è piegata in avanti per sostituire il fusto di birra.

Robert è quasi sicuro che non indossi mutandine.

Inconsciamente, Robert Code  si guarda le mani.

Un metalmeccanico ha sempre le mani sporche.

Lo sporco sotto le unghie dice tutto di te.

Le frasi di sua moglie Terry gli passano nel cervello come frustate.

Gli riaprono ferite nelle quali si crogiola.

 Ormai Robert parla con lei solo nella propria testa, dopo aver bevuto tre o quattro birre.

Ogni momento è buono per sentirsi dei falliti.

Hai ragione tesoro. Ma il sabato pomeriggio in solitudine al pub, mentre fuori c’è il sole, con i Tigers in Tv che perdono una partita già vinta, ha qualcosa di speciale, che merita un’altra birra, non credi?

Quasi gli leggesse nei pensieri, appena agganciato il nuovo fusto, la ragazza gli chiede:

«Un’altra birra, Bob? Terry è di turno, no? O ti aspetta a casa?»

Da una vita Jenny McBride gli provoca fantasie erotiche che non saranno mai appagate.

Amica di sua moglie Terry dai tempi delle scuole, vicina di casa e madre di Mary Ann che è a scuola con suo figlio Christian.

Per anni Jenny e Terry si sono aiutate nel badare ai figli piccoli. Impossibile anche solo pensarci.

Ma quando il sabato indossa quella stretta camicetta per dare una mano nel pub di suo cognato, con quel seno prorompente, unica attrattiva del pub dopo le partite in tv, Robert Code  comincia a fantasticare.

«Vada per un’altra birra!»

Nel servirgli la birra, lei dice: «Si muore di caldo qui dentro!»

C’è qualcosa di malizioso in quel suo sorriso?

Robert in tanti anni non l’ha mai capito.

Ora Jenny spegne la tv e accende Radio Rock.

Le note di  Feel like making love dei Bad Company invadono il pub e Robert, nel primo sorso di birra,  rivede la faccia di sua moglie Terry stravolta dal piacere, un’immagine vecchia di anni, un bel ricordo, una grande nostalgia, fare l’amore tutti i giorni, ubriacarsi insieme, ridere e parlare fino a notte fonda.

Poi, nato Christian, niente più sesso, niente allegria, solo rancore e rabbia.

Non ricorda più l’ultima volta che hanno fatto l’amore.

Come sono lontani i tempi in cui lei lo riempiva di complimenti per la sua prestanza di grande stallone.

Adesso lo disprezza, e non in silenzio, lo aizza giorno e notte rinfacciandogli ogni sua mancanza.

Lui rimugina, e a volte esplode.

La picchia fino a farla stare zitta, cercando di non rovinarle troppo la faccia.

Poi osserva il viso di Jenny, un viso comune, e con qualcosa di volgare.

Spesso, in periodi diversi, ha pensato di provarci con lei, ma non l’ha mai fatto.

Non si è mai sposata Jenny, nemmeno dopo la nascita di Mary Ann.

Sembra dieci anni più giovane di Terry.

Si è slacciata un bottone della camicetta, adesso.

«Ti rubo una sigaretta, Bob»

Di nuovo quel sorriso, e nel prendere la sigaretta dal pacchetto che lui le offre, uno squarcio fugace nella scollatura gli trafigge il respiro.

Dal suo sgabello Robert la segue con lo sguardo e si sforza di ragionare pragmaticamente.

Lei esce a fumare. Deve raggiungerla?

E magari dirle qualcosa di spiritoso, gonfiare i muscoli, posarle un istante una mano sul fianco?

Oppure chiederle senza malizia se ha bisogno di una mano?

Il magazzino del pub è proprio dietro l’angolo, la scusa di aiutarla a portare una cassa di coca cola gli pare buona.

E appena in magazzino, sbatterla contro il muro!

Finisce la birra in un sorso, afferra il pacchetto di sigarette e sta già scendendo dallo sgabello quando si blocca.

Attraverso le vetrate, sull’altro lato della strada, vede l’orribile sagoma, un alberello rachitico in movimento, di suo figlio Christian.

Ha i pantaloni sporchi di fango e la maglietta lacerata.

Doveva andare in parrocchia per le confessioni, ma evidentemente si è poi fermato a giocare nel campetto di terra dell’oratorio e adesso sta andando a casa a lavarsi.

Cioè a sporcare il bagno. Poi Terry se la prenderà con lui.

Anche Jenny ha visto Christian, Robert osserva la scena.

Jenny sta gridando qualcosa per attirare l’attenzione di Christian, l’espressione felice.

Fa sempre così con lui, lo ricopre di complimenti esagerati,  “il mio ragazzo preferito”, “l’unico maschio intelligente di questa città”.

Christian la vede e si illumina. Attraversa la strada senza nemmeno guardare. Un idiota!

Jenny getta via la sigaretta appena accesa e spalanca le braccia.

Christian si tuffa letteralmente tra i seni maestosi di Jenny Mc Bride, che se lo stringe addosso come volesse divorarlo.

Robert Code ha bevuto parecchio, ma la sua vista non è offuscata, e vede distintamente,  mentre lei gli stringe la testa al petto, le mani di suo figlio Christian che furtive, nello sciogliersi dall’abbraccio, indugiano sull’attaccatura dei seni della donna.

Lei gli dà un bacio in fronte e lo allontana con dolcezza.

Christian corre via. E poi Jenny fa qualcosa che spiazza Robert: gettato un rapido sguardo intorno, raccoglie la sigaretta da terra, e la riattizza aspirando lunghe boccate compulsive.

* * *

Don’t let me be misunderstood.

Il volume della musica è altissimo, si sente fino in strada.

E Robert da sempre odia quella canzone, quelle parole, quella musica.

Anche prima che Terry gli dicesse: forse odi te stesso, la tua incapacità di esprimerti.

Robert Code sente crescere la rabbia.

Salendo le scale a due gradini per volta, ubriaco, quasi inciampa.

Arrivato al pianerottolo di casa, pensa: “lo ammazzo”.

Spalanca la porta d’ingresso urlando: «Abbassa questa cazzo di musica!».

Ma in soggiorno e nelle camere non c’è nessuno. La porta del bagno è aperta.

Nessuna traccia di Christian.

Per un attimo pensa di andare a spegnere lo stereo, ma la vescica gli sta scoppiando per le troppe birre bevute.

Entrando in bagno si slaccia i pantaloni, e solo allora nota che la vasca è piena d’acqua e di schiuma fin quasi a strabordare.

Per un istante osserva in silenzio la superficie dell’acqua. Che non è perfettamente immobile. Allora protende le mani come artigli nell’acqua.

La preda è viscida, sfuggente, e si dibatte come un pesce.  

Solo le mani sai usare, e nemmeno tanto bene.

Sono mani brutte, grosse, callose, ma forti, dure. Christian non ha scampo.

La sua idea di eclissarsi in apnea, come nei film d’avventura, si rivela una tragedia.

Avrebbe dovuto schizzare fuori dall’acqua mentre suo padre lo cercava in camera, afferrare l’accappatoio e darsela a gambe.

Con presa ferrea, con una mano sola, la sinistra, suo padre lo tira fuori dalla vasca, tenendolo stretto per il collo.

Christian è stupito dalla facilità con cui suo padre lo afferra. Con le mani, cerca inutilmente di coprirsi le parti basse.

Disgustato, Robert vede ciò che suo figlio cerca di nascondere: il suo piccolo pene turgido!

Si stava masturbando!

Lo solleva davanti a sé, inchiodandolo al muro.

Anche se ha sbattuto la testa contro le piastrelle bianche Christian non grida, non urla.

Ora arriveranno le sberle, lo sanno entrambi.

Schiaffi e manrovesci, due, quattro, sei, otto, anche dieci, è la routine del fine settimana in casa Code, o lui, o la mamma, a turno.

Per un istante i due maschi si fissano negli occhi.

Bello come un angioletto, tutto il contrario di suo padre.

Poi  Christian perde il controllo, qualcosa dentro di lui si spezza, e del tutto involontariamente, mentre ancora lo stereo spara le ultime note di misunderstood, eiacula in faccia a suo padre.

La destra del padre, chiusa a pugno, scatta immediata e si abbatte violentissima sul viso di Christian.

* * *

All’istante Christian perde i sensi a ricade a corpo morto nella vasca, facendo uscire secchiate d’acqua.

Ora Robert è in preda al panico. Scivola, cade, si ferisce.

Carponi, in ginocchio davanti alla vasca,  solleva il corpo di suo figlio, lo porta in soggiorno, lo distende sul divano, lo copre.

Poi trova il coraggio di posargli una mano sul petto.

Il cuore batte, ma al posto della faccia, della bocca, del naso, c’è una maschera di sangue.

Come fa a respirare?

Robert cerca un fazzoletto, e mentre si aggira sconvolto nei pochi metri quadri della casa, trova la lucidità di strappare quel cavo elettrico, e spegnere lo stereo.

Finalmente trova un tovagliolo pulito.

Nel pulirgli il naso si rende conto che l’osso è frantumato.

Torna in bagno a prendere la scatola delle medicazioni, e mentre è in bagno, nel tetro silenzio che è calato in casa Code,  lo sente tossire violentemente.

E nel precipitarsi in soggiorno, quasi scivola di nuovo sulle piastrelle bagnate, ma con una spallata allo stipite della porta del bagno, riprende l’equilibrio.

Christian ha gli occhi aperti, ma è immobile.

«Riesci a muoverti?»

Christian non risponde, però solleva e apre la mano destra, poi la sinistra, e infine muove le dita dei piedi.

Robert guarda l’orologio. Le nove e cinque. Manca ancor quasi un’ora alla fine del turno.

Afferra il telefono, e chiama il caporeparto perché mandi subito a casa Terry.

Il caporeparto è un amico, non c’è bisogno di spiegargli niente.

Mezz’ora dopo, mentre Terry porta Christian al pronto soccorso della fabbrica, Robert si fa una doccia fredda e indossa il suo vestito migliore.

Si mette alla guida della vecchia Dodge e va a suonare il campanello della canonica.

Sono quasi le dieci di sera. Ha infilato 50 dollari in una busta e appena padre Jacob gli apre la porta gliela consegna.

Padre Jacob riconosce subito quel volto dimenticato e il suo bisogno. Lo fa entrare senza fargli domande.

E’ sufficiente uno sguardo di compassione.

«Stasera ho bevuto, padre, e ho picchiato mio figlio»

Padre Jacob infila la busta in un cassetto e riflette.

L’uomo davanti a lui è sconvolto. Il suo pentimento sincero.

Dio vede e provvede.

Non è il momento di affrontare certi discorsi sulla “diversità” del cresimando Christian Code.

Probabilmente Robert Code non sa nemmeno cosa sia il quoziente d’intelligenza.

Padre Jacob lascia trascorrere qualche ragionevole istante prima di alzare la destra nel segno della croce.

Robert piega il capo e giunge le mani.

E padre Jacob recita:

«Ego te absolvo in nomine patri».

* * *

Uscito dalla parrocchia, Robert non sa cosa fare.

Non ha il coraggio di andare al pronto soccorso.

Fa una lunga camminata seguendo la recinzione della fonderia.

La sua testa è piena di pensieri confusi su casi di morte conseguente a emorragia cerebrale di persone che dopo il trauma riprendono momentaneamente i sensi.

Alla fine del giro, da lontano, nota che davanti al posto di pronto soccorso non c’è alcuna auto. Dunque Terry e Christian sono rientrai a casa.

Con la speranza nel cuore, ripercorre il lungo tragitto.

Quando rientra a casa è passata la mezzanotte.

Terry sta guardando la Tv, la sigaretta che le pende all’angolo della bocca.

La camicetta aperta, il reggiseno sul tavolino, iI posacenere pieno di cicche.

Non sono la tua baldracca.

Robert attende. Inutile chiederle.

Come sempre, lei inizierà a parlare quando lo deciderà lei, di scatto, come un’arma automatica, per frasi secche, senza guardarlo.

Roberto attende in piedi per un tempo lunghissimo, in preda a un’ansia crescente.

Perché le porte delle due camere sono aperte, e Christian non c’è.

Terry spegne la sigaretta, la spegne con cura.

Poi ne accende un’altra e la fuma quasi per intero.

«L’hanno trattenuto in osservazione. Ti è andata bene. Avresti potuto ammazzarlo»

* * *

FINE PRIMO CAPITOLO – segue

photo “The baby was” by Athos Mazzoleni

http://www.foodforeyes.com/ 

piano dell’opera: The male code  (original screenplay for Christian Bale

by Leone Belotti / GianFranco Bortolotti / CalepioPress©2013)

 

INDEX

 parte prima 

1 – il codice sorgente                       Detroit, 1974.

2  – la scheda madre                        Detroit, 1976.

3 – la periferica di controllo            Detroit, 1978.

4  – il sistema operativo                   New York, 1980.

5  – la relazione in copyright           Boston, 1982

6  – la scheda di memoria                Detroit, 1984

parte seconda

7  – la donna software                      Sylicon Valley, 1986

8  – la donna telefonia mobile          NY-London, 1988

9  – la donna pixel                             NY-Paris, 1990

10  – il maschio hacker                     Los Angeles, 1992

11 – il dominio del maschio web     Mosca, 1994

12  – il maschio server                     NY-Bejing  1996

PROXIMA PUBLICATIO : CAP2 La scheda madre > MAR 9 APRIL 2013

un cane non sceglie il suo padrone

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UpperDog2

Va bene, mi hai provocato, ti racconto la mia vera storia, poi ci penserai due volte prima di darmi del povero bastardo cagasotto.

Mi chiamo Otto e sono un lupetto bastardo.

Il mio primo ricordo è una mano umana che mi  prende dalla cesta e mi infila in un sacco di juta insieme ai miei sette fratelli

per poi tirarci fuori dopo una mezz’ora in un campo gelato per ammazzarci a bastonate

prima uno poi l’altro poi il terzo poi il quarto il quinto il sesto e il settimo mentre io per pura fortuna mi infilavo nel buco di una talpa.

Fuori nel mondo crudele sentivo questa voce di uomo che gridava: erano otto, ne ho ammazzati sette, dove sei numero Otto? Dove sei scappato, Otto?

Questo è stato il mio battesimo.

Nel buco della talpa sono rimasto per sette giorni, mangiando i ranocchietti e le lumachine che la vecchia talpa padrona di casa mi metteva davanti al muso. Le erano morti recentemente i suoi due talpini.

All’età di due mesi, mentre facevo le mie prime piccole escursioni fuori dal mio bozzolo di cane-talpa, sono stato preso e portato via da due tipi, il tipo e la tipa, i quali tra di loro si chiamavano proprio così: ehi tipo, scusa tipa.

Sono stato con loro un paio d’anni in una mansarda in un vecchio quartiere. Poi loro si sono lasciati. Lui l’ha mollata. Non ti reggo più, tipa. Io sono rimasto con lei.

Le prime sere non faceva che tenermi abbracciato, piangere, e dire: bastardo.

Poi c’è stato un periodo in cui si è messa a bere. Da ubriaca, mi prendeva a calci e mi diceva: bastardo.

Effettivamente lei non mi ha mai voluto bene. E’ con lui che io mi divertivo. E’ con lui che mi capivo.

Ma un cane non si sceglie il suo padrone.

Un povero bastardo deve prendere quel che viene.

tratto da “upper dog – le avventure di Otto e Bea – Calepio Press 2008 – disegno di http://www.jennifergandossi.it/home.html

lo stile italiano

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7.13_Onofrio_Martinelli

Lo stile italiano si basa su un’unica, potente promessa: l’apparenza  inganna.

L’italia stessa trova la sua identità nell’inganno delle apparenze.

Lo stile italiano stesso in apparenza è autentico, unico, intelligente e suggestivo; in realtà è falso, riprodotto, stupido e freddo.

In questo, risponde esattamente al target di riferimento, il signorotto italiano, e le sue donnette.

Basta guardare una pubblicità di moda italiana per capirlo: Armani, Versace, Prada, Dolce&Gabbana, Cavalli e Diesel, insieme, non fanno che gridare “vendiamo fumo, la merce più utile in un mondo in cui l’apparenza inganna”.

Il signorotto italiano nelle sue varie configurazione (signorino, signorone, possidente, imprenditore, professionista, dirigente)

è in Italia quel che nel resto dell’occidente è il borghese, ma differisce da questo perché i valori-guida del borghese (onestà, meritocrazia, sobrietà, giustizia, libertà etc) in Italia sono semplici etichette (apparenze) che coprono i meccanismi reali, radicati da secoli, del funzionamento sociale (raccomandazioni, privilegi, corruzione, intimidazione, servilismo, nepotismo, familismo, etc).

Lo stile italiano ha origini nella storia d’italia, nella transizione dalla civiltà classica greco-romana alla civitas cristiana.

Il primo carattere di questa fusione, è il maschilismo:  non è un carattere originario, ma un portato ideologico costruito dai padri della chiesa, così come il secodo carattere, la sacralità delle scritture, e dunque della legge. Maschilista, teologico, codificato. E’ lo stile italiano.

L’italia in apparenza è un giardino con palazzi rinascimentali e borghi storici, un manto verde tra un cielo bianco e una terra rossa; con intorno un mare azzurro.

In realtà l’italia è una discarica di storia e cultura, rifiuti e veleni, un angolo morto di cielo grigio e terra bruciata, circondato da un mare nero.

i valori civili in italia sono rimasti quelli torbidi  della congiura di palazzo, che sia un condominio, o palazzo chigi, la delazione e il doppiogiochismo sono pratiche di massa, maggioritarie,

il carattere principe dell’italiano è il trasformismo, anche istantaneo:

stiamo parlando di un paese la cui maggioranza dei cittadini è capace con grande naturalezza storica di andare a letto la sera fascista a vita e svegliarsi la mattina antifascista da sempre. La vita è un sogno, l’apparenza inganna.

Al lavoratore viene offerta l’apparenza del possedere, il posto di lavoro e la casa, vincolati l’uno all’altro dal più potente strumento di sottomissione, le rate del mutuo;

all’artigiano viene offerta l’apparenza del diventare imprenditore, e la sostanza dell’annegare tra le onde del mercato e/o essere stritolato tra i tentacoli del fisco.

Il lavoratore, persa la dignità del nullatenente, e l’artigiano, persa la libertà del proprio lavoro, non hanno altra strada che quella ormai imboccata:

portare avanti la recita, ingannare se stessi, ingannare gli altri,

e dunque l’interesse del vivere si concentra sull’indossare abiti firmati, non importa se falsamente autentici o autenticamente falsi, basta che garantiscano l’apparenza (o un’apparenza d’apparenza).

Nello stile italiano  identifichiamo l’anima  della società dello spettacolo,

figura ultima del capitalismo  come sistema di sfruttamento finanziario, morale, culturale esercitato da una esigua minoranza  (l’elite) sulla stragrande maggioranza (la massa).

Circense, curtense, ecclesiale, militare, industriale, radiofonico, televisivo, telefonico, informatico: il modo d’aggregazione è il mezzo di sfruttamento, ecco il filo nero del modello storico italiano.

Le radici del modello spettacolare italiano  affondano nella Roma circense. Nerone ha inventato il reality show.

Quindi nella teatralità della liturgia cattolica e nello sfarzo esemplare delle corti rinascimentali.

Nell’età moderna, c’è un solo prodotto del genio italiano: l’opera.

Nell’opera lirica,  l’ideologia italiana è sublimata: l’apparenza  inganna, i fondali sono di cartapesta, i cantanti truccatissimi, ma quanto sono veri i sentimenti che questa apparenza produce!

L’ideologia italiana  promette di confezionare in un mondo di sogno la vita interiore.

Non la vita reale, non il lavoro, non la società civile, ma lo spettacolo, il sogno, il teatro, il gioco saranno gli ambiti nei quali l’italiano investirà sentimenti, credenze, speranze.

Lo stile italiano moderno nasce radiofonico nel ventennio fascista: nello spettacolo del regime fascista, ravvisiamo le origini della moda e del made in Italy come modello di apparenza e consenso sociale.

La matrice radiofonica-fascista dello stile moderno italiano viene travolta dalla guerra e dopo un trentennio di catto-comunismo rinasce negli anni ottanta come made in Italy grazie al mezzo televisivo – e quindi telefonico.

La moda e il design sono la sceneggiatura dello stile italiano contemporaneo,  il calciatore e la velina i suoi interpreti,  il mondo intero il pubblico pagante.

Bellezza, vigore, eleganza, unicità, igiene, tecnologia, ecologia, ironia, leggerezza, beneficenza e arte sono i valori propalati.  Ignoranza, violenza, furbizia,  scaltrezza, arroganza, familismo, possesso e usura del denaro sono i valori sottesi.

Lo stile italiano è il cardine della società dello spettacolo.

La società dello spettacolo si basa sull’immagine,  il suo senso è l’apparenza,  il suo codice la finzione, la sua prassi la recita.

E’  la tragica caricatura di una mitica società ideale platonico-epicurea, basata sul teatro, la ginnastica e le sensazioni del piacere nelle sue varie forme (dell’occhio, dell’orecchio, della gola, del naso, della pelle).

Rispetto alla sobrietà e all’etica protestante del capitalismo industriale, lo stile italiano rappresenta una società al contrario, carnevalesca, dove nulla è quello che appare e nella quale il capocomico viene fatto re (o il re si fa capocomico).

(tratto da Sean Blazer “Lo stile italiano” CalepioPress 2013, immagine: “Composizione di nudi” by Onofrio Martinelli, 1938)

adv m3

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PicciBelen

l’advertising “ménage à trois” (m3)

imperversa in tv nelle due classiche possibilità:

1) per una società di antennisti abbiamo lui, lei e l’altra

(Belen, quella che ti monta la connessione, mentre la Piccinini è quella che salta)

2) per una casa farmaceutica invece abbiamo lei, lui e l’altro

(quello che passava di lì, come il mal di testa, in capsula).

Lo spot con la Belen, per usare il linguaggio tecnico degli art director di successo,

è chiaramente “uno spot di figa”, destinato al maschio idiota,

mentre lo spot della capsula è uno “spot del cazzo”, destinato alla femmina isterica.

Insieme, il maschio idiota e la femmina isterica, per gli investitori,

rappresentano la coppia campione della società italiana,

che tira avanti a tv e pastiglie, sognando un’amante (che faccia girare la testa).

Lo spot del mal di testa è prodotto dall’agenzia Testa.

Lo spot del trio Belen ha prodotto  30.000 nuovi clienti in 3 mesi.

La domanda tragica è: un popolo ha la pubblicità che si merita?

Come abbiamo potuto ridurci a un livello di aspirazioni così basse?

La pubblicità nasce per vendere automobili (ed altro) come promessa di libertà.

Ma la libertà che viene offerta oggi in Italia insieme all’auto è agghiacciante:

“poi sei libero di restituirla” (per uscire dal tunnel delle rate).

Del resto, la rivoluzione proposta alle nuove generazione è un conto in banca,

mentre gli idoli del calcio consigliano ai ragazzini il gioco d’azzardo on line,

le grandi firme della moda esaltano fragranze che sanno di mercificazione sessuale

e i comici più irriverenti sono stati assunti dalle compagnie telefoniche

per irridere e dileggiare intellettuali, artisti e operai.

La dittatura non si costruisce, e nemmeno si abbatte, in pochi giorni.

Occorrono alcuni anni, ingenti risorse, e molti collaboratori.

                                     Sean Blazer per adv zero/Calepio Press 

festa della donna per cani bastonati

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cagnaPadrona

oggi ho scoperto che anche il mio padrone ha una padrona,

che però l’ha abbandonato come un cane, in autostrada, di notte,

cosa questa che l’ha mandato in un super-down sub-human

dopo anni di grande amore e vita e avventure sempre in due sempre insieme

si è ritrovato giornate, settimane, mesi sempre solo, in casa, a letto, a non dormire

un abisso che solo ora (dopo un anno!) sta cominciando a risalire

dopo aver provato terapie e psicoterapie e psico-sostanze di ogni tipo:

io stesso, il suo cane, ho scoperto, non sono altro che una terapia (pet-terapy)

e tutto questo amore che lui prova per me è di seconda mano,

lui si occupa di me, mi fa gli occhi dolci, ma è tutta scena,

riconosco un cane bastonato, ho visto come si accuccia nel letto,

come si aggira nei bar a occhi bassi e coda tra le gambe

non vedendo l’ora di rientrare a cuccia e accendere il computer.

Per un anno il bipede ha tenuto un diario confessione dal titolo “riduzione uomo”

dicono sia il manifesto del nuovo maschio, quello che conosce la crisi,

che non rinnega la sua parte debole, e può sfidare qualsiasi mostro si presenti,

dopo aver affrontato i suoi mostri interiori, una specie di nuovo maschio-antico

con in più la sensibilità del maschio debole….

a me, a sentire certi discorsi, viene voglia di farne una ciotola mista,

con cervello, cuore, fegato, rognone, la ciotola “interiora design”…

spero che il bipede si decida a mangiarsi certa roba invece di mandarla in stampa

evitando sprechi di carta: meglio ingoiare un manoscritto oggi,

che duemila libri invenduti tra 24 mesi!

adesso ne hanno tratto un video, e ti pareva, dedicato a tutte le donne,

si sono messi in tre per condensare in tre minuti il pathos del maschio abbandonato

il risultato è stucchevole, patetico, roba da umani, frasi ridicole, immagini banali,

una specie di “cioè” per quarantenni ritardati dalla lacrima facile,

giusto la musica si salva, date un’occhiata, e ditemi se ho ragione.

Upper Dog

 

facevamo l’erba sul ciglio della strada

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Rav6

Mio padre lavorava  alla Caproni. La Caproni era una fabbrica di aerei. Il campo di prova era appena  fuori casa, sulla sponda del fiume. Sentivamo  il ruggito dei motori in decollo a tutte le ore. In famiglia  eravamo quattro fratelli. Vivevamo a Tresolzio, frazione di Brembate, eravamo mezzadri della contessa Moroni. Il fattore faceva  il bello e il cattivo tempo, e aveva anche delle pretese sulle mogli, sulle figlie dei mezzadri.

Eravamo gli ultimi. Chi aveva un pezzo di terra, già era in diritto di trattarci dal di sopra. Andavamo a fare l’erba  sul ciglio della strada, ma anche lì c’era qualcuno a dire «non è roba vostra». Tutta la mia infanzia è stata una continua umiliazione.

Mi mandavano in bottega a fare la spesa, c’era  sempre qualcosa indietro da pagare, e allora  ero sempre l’ultimo, chiunque entrasse era servito prima di me: alla fine dovevo prendere quel mi dava, non potevo scegliere il miglior taleggio, no, quello era per i signori. Questo trattamento lo ricevevi ovunque. Anche a scuola. La maestra  per prima cosa guardava come eravamo vestiti, poi decideva i posti.  Le prime file erano per i figli del podestà, del’avvocato, del fattore. Poi c’erano i figli dei commercianti e degli impiegati.  Nelle ultime file i figli degli operai e dei contadini e in fondo alla classe, nell’ultima fila, nell’ultimo banco c’ero io, il figlio del mezzadro Ravasio.

Il mio primo giorno di scuola finì prima ancora di cominciare: mia nonna mi stava accompagnando, ma suona l’allarme,  bombardamenti, tutti a casa, niente scuola.

A sei anni ero già grande, dovevo badare ai fratelli più piccoli, e se succedeva qualcosa ero io responsabile, come quella volta che dovevamo andare da Tresolzio a Locate dalla nonna, e a metà strada sentiamo un rumore che conosciamo bene, aerei, e il mio fratellino Egidio, quattro anni, poer nani, se la fa nei pantaloni, e io a pulirlo in qualche modo, nel fosso, sotto le bombe , e poi, arrivati dalla nonna, le ho dovute anche prendere…

Quando non eravamo a scuola eravamo nei campi ad aiutare, a zappare, a fare il fieno. Si andava a rubare i vecchi stracci per farci un pallone, giocavamo a piedi nudi e ci si faceva  male ai piedi, altri giochi non c’erano,  qualcuno si divertiva in primavera  a costruire arpe con i maggiolini, ma il vero sport era la fionda. Con la fionda in tasca si andava in cerca di qualche passero cui tirare o qualche lampadina, quelle poche che c’erano. Ricordo i miei primi zoccoli di legno, costruiti da mio padre lavorando un pezzo di legno, come ne “L’ albero degli zoccoli”. Per chiuderli si usava un pezzo di copertone usato di bicicletta che aveva già fatto chissà quanti chilometri  su strade di ogni tipo e poi ne avrebbe fatti altrettanti  a piedi.

A 11 anni ho avuto le mie prime scarpe, in cartone pressato: le ho avuto per andare a lavorare lontano da casa, a Lecco, a far  bisacche, le reti metalliche  che poi vengono riempite di pietre e usate a irregimentare  il fiume. Il filo di ferro di 3 mm, il bordiù, ti tagliava le mani.

Tornando a casa  guardavo il fiume in piena, faceva  paura, e pensavo: devo farle bene, le bisacche.

La sera  mia madre mi diceva  «Fammi vedere le mani», e mi curava le ferite.

Questi lavori li facevano i ragazzi, d’inverno, all’aperto.

Finita la guerra, la Caproni decide di lasciare a casa cento operai. Tra questi, mio padre. Un dramma. Con i soldi della liquidazione, per prima cosa, andammo a pagare i debiti col negozio di alimentari. Una scena che mi ricordo come se fosse successa ieri.  Ero con mio padre, entriamo, aspettiamo, e quando non c’è nessun altro da servire  viene il nostro turno, mio padre tira fuori la grossa banconota da mille lire, sembrava un tovagliolo, gliela consegna, e la signora, che sapeva della liquidazione, nel prendere i soldi, con tono di rimprovero, sollecitava  mio padre a darle in consegna  tutta la somma, come si farebbe con un bambino. Un’umiliazione terribile. Qualche anno dopo suo figlio, sempre vestito come un damerino, mi passa davanti mentre sto andando alll’allenamento di calcio, e con arroganza  volgare lascia andare un peto al mio indirizzo. Alla mia protesta, risponde: «Io mangio il prosciutto, mica la mortadella  come voi altri». Senza pensarci, gli sono addosso e gli dò una lezione. Dovevamo avere 14 o 15 anni. Io lavoravo già a Milano, e cominciavo a capire e a non tollerare più certe  cose di quel nostro modo di vita da paolot, tutto chiesa, casa e orecchie basse.

Ho sempre avuto la passione per il ballo, una passione iniziata nel dopoguerra, quando lavoravo a Milano, avevo sedici anni, e insieme ad altri compaesani ci fermavamo a dormire dal lunedì al venerdi in una stanza che il titolare della ditta ci aveva dato in uso. Il Giovedì sera si usciva, un’esperienza del tutto nuova per me, andare a divertirsi. Si andava al bar a vedere  in televisione “Lascia o raddoppia”, era quello il divertimento. Poi abbiamo cominciato ad andare al Polverone, lo chiamavano così, era uno stanzone sotto la Stazione Centrale addobbato a sala da ballo, frequentato da operai e cameriere.  Quando tornavo al paese e dicevo ai miei amici di essere andato a ballare quelli si scambiavano occhiate d’intesa e mi prendevano in giro, erano convinti che raccontassi balle per farmi bello, non potevano capire che a trenta chilometri di distanza, a Milano, certe cose erano normali, c’era  il lavoro e la miseria, ma anche un assaggio di una merce che al paese non sapevano nemmeno cosa fosse, la libertà…

Una sera  conosco una ragazza, cominciamo a ballare insieme, mi sembra di vivere in un film, poi usciamo, la accompagno  a casa in tram, fin sotto il portone dove vive e lavora come cameriera,  e lei mi dice: «Vuoi salire a bere una tazza di the? Questa sera  i signori non ci sono».

E io, paolot, con in testa il divieto più forte della voglia di stare da solo con una ragazza , che le rispondo: «Allora sarà per un’altra  volta». Ci ho poi pensato per settimane, per mesi. Più vista. E un mio compagno di lavoro, uno di Milano, quando gliel’ho raccontata,  mi ha detto: «Adesso sai cosa vuol dire pirla».

Qualche anno dopo, salito su un treno, sono andato in Svizzera come edile. Lavoro, lavoro, e ancora  lavoro: ma in Italia c’era  Liliana, la mia fidanzata. Ci siamo sposati nel 60, e subito a lavorare in Svizzera, ma insieme, lei aveva trovato lavoro nella ristorazione, si viveva con altre cinque coppie di italiani in una casa per emigrati. Facevamo i turni per usare la cucina, ma avevamo la nostra stanza e la sera studiavamo insieme il tedesco.

Poi una notte lei sta male, perde sangue, io nemmeno avevo capito che fosse incinta, per come eravamo stati cresciuti ed educati su certe cose c’era  un pudore e un riserbo totale. All’ospedale, insieme al dolore per l’interruzione della gravidanza,  mi aspettava  un’umiliazione decisiva: un dottore tedesco, in camice bianco e occhiali d’oro, che con disprezzo  mi dice: «italiani, siete come gli zingari».

(tratto da Giovan Battista Ravasio,  “L’erba sul ciglio della strada”, ©2006 edizioni Calepio Press)