47 TFIC – 17 naming

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17 The naming specialist

in principio era il verbo

A un certo punto, mi ritrovo a dover lasciare il rosa causa infortunio sul lavoro: essendo stato “mollato” dalla tipa (dopo dieci anni di sesso-fuga d’amore- due cuori e una capanna – l’attico a rate – la moto nuova – un certo imborghesimento) in piena crisi da maschio abbandonato anche solo l’idea di scriver la parola “ti amo” mi fa venire il voltastomaco;

così in cerca di scritture “senza passione”, che non richiedano “il cuore”, comincio a  lavorare all’architettura narrativa di videogame e cd-multimediali, non è per niente semplice.

Poi mi viene offerto di lavorare alla Thompson, la grande agenzia, come copy senior del below the line, che sarebbe una sezione della catena di produzione creativa.

E’ il sogno di tutti, stipendio sicuro, carriera, soldi, gratificazioni sociali.

Ma devi fare una vita da caserma, devi vivere lì, in questa location eccitante che ti porterà a depressione sicura.

Come sempre succede, quando rifiuti un posto sicuro non ti preoccupi perché hai molti lavori free-lance, ma puntualmente questi lavori spariscono e ti ritrovi pentito e piagnone.

Com’è, come non è, dopo aver rifiutato questa proposta-Thompson, passo veramente un paio d’anni in depressione, tutto il giorno a letto a fumare le Marlboro Lights, spendo tutto quello che avevo, vendo la casa, spendo tutto, alle banche chiedo mutui specifici come scrittore in crisi d’ispirazione, non li ottengo, così mi tocca alzarmi e andare a cercare lavoro.

Chi mi aiuta in questi momenti di crisi nera? Forse qualche fondazione europea? Qualche assessorato comunale alla cultura? Nessuno.

Crisi.

Poi trovo un vecchio art director scoppiato, A.T., uno dei “padri” della pubblicità italiana.

Sue citazioni preferite:

“L’immaginetta della Madonna è la base della pubblicità”

“La pubblicità è il vangelo del dio denaro”

“Nel paradiso terrestre il sesso serpeggia ovunque”

“Il quieto vivere è meglio della lotta sociale”

“Il lavoro base è la costruzione del super-io”

“La psiche è come il maiale, non si butta niente”.

Questo vecchio art in passato mi ha chiamato qualche volta per lavori di “”naming”, cioè trovare il nome a qualche nuovo prodotto, più tutta la salsa semiologica intorno, un lavoro che ti rende mille-duemila euro, e cinque volte a lui che, magari dopo aver corretto un po’ la salsa, “vende” il tutto alla grande agenzia, la quale a sua volta gli mette intorno la sua salsa e fattura al cliente il quadruplo del costo.

Sia chiaro che alla fine tu vedi i mille euro solo se viene scelto il tuo nome.

La grande agenzia ha magari in giro tre o quattro sub-fornitori di creatività i quali hanno in giro altrettanti copy.

L’agenzia non fa altro che scegliere e convincere il cliente, o il dirigente markentig dell’azienda cliente. Incassa ventimila, paga cinquemila al vecchio art che paga mille a te, mentre gli altri diciannove creativi in proprio hanno lavorato gratis, sperato invano, e quando va bene hanno preso un “rimborso” di cento o duecento euro.

Effettivamente tu alla fine, tra vocabolari e settimane enigmistiche e frittura della salsa, hai lavorato un paio di giorni.

Il dirigente-art ha svolto un po’ di lavoro di psiche, dovendoti dare gli input e dovendoti “caricare”, e dovendo poi anche “persuadere” l’agenzia.

L’account dell’agenzia fa identico lavoro, caricare l’art e scaricare sul cliente.

Morale, mi chiama questo vecchio art, e mi dice: c’è da fare il lavoro base per un cliente che opera sul mercato della politica.

Bisogna sapere che questo art director ha iniziato a fare il pubblicitario alla fine degli anni Cinquanta, dopo la chiusura dei bordelli, spiegando alle prime lucciole di posizionarsi sul lato destro dei sensi unici in uscita.

Oggi non sa usare un computer e quasi nemmeno un telefonino, però è riuscito a convincere De Michelis ad andare dal barbiere e a rimettersi in politica.

Così scrivo un po’ di slogan politici per il nuovo PSI, ma soprattutto faccio il copy per  enti che una volta si chiamavano sindacati e oggi hanno come missione base quella di far pagare le tasse ai lavoratori (precari).

Crisi.

Viene un momento, nel corso della carriera dell’aspirante writer, nel quale ci si rende conto di essere, da un punto di vista professionale, nella stessa situazione di una prostituta di lusso, tutti vogliono venire a letto con re, ma nessuno vuole sposarti.

Questo ti duole, perché professionalmente parlando continui a credere nell’amore, e sogni un matrimonio d’amore, e continui a sperare di incontrare il tuo Adriano Olivetti, e diventare un big letteratura-industria.

Crisi.

imago “architetture sospese” by J.Gandossi

47 TFIC – 16 pamphlet

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16 Libro inchiesta

lo scrittore di questioni sociali

Il libro-inchiesta, il pamphlet, il j’accuse, il manifesto di un nuovo pensiero o movimento, l’indagine, il reportage, il libello polemico:

parliamo del successo dello scrittore di cose sociali, dell’intellettuale impegnato, ieri Sartre, Queneau, Pasolini, oggi Naomi Klein, Travaglio, Saviano.

Tutti hanno il saggio-bomba nel cassetto, o perlomeno in testa.

 

Negli anni Novanta del secolo scorso, il decennio della conclamata “sobrietà”, il mio disgusto verso il sistema della moda raggiunse i massimi livelli.

Passavo interi pomeriggi a conversare con l’architetto Baroli – un compasso d’oro! – nel suo bunker in via Durini.

Lui mi raccontava con il sorriso dell’esteta depresso segreti e bugie del made in Italy, io cercavo un modo per rivelare al pubblico cose eclatanti e lineari, come i meccanismi finanziari del cosiddetto “valore culturale aggiunto” per cui una polo o un jeans da 5 euro – una volta griffati – vengono venduti (ancora oggi) a 20 volte tanto, cioè con un ricarico del 2000%.

 

Solo un popolo ignorante può pensare di comprare cultura in una boutique. Solo un paese marcio può asservire industria e banche a un gruppo di “stilisti”, dietro cui si muovono altre economie, è chiaro.

Solo un sistema mediatico corrotto può propalare per decenni certe menzogne colossali e non dire mai niente di quello che c’è dietro la facciata, e non parlo di modelle e festini, parlo di pubblicità, soldi e banche.

Che fare?

Se andavi da un editore con questi argomenti si metteva a ridere.

I media italiani stanno in piedi con le pubblicità di moda.

Un libro verità sul papa, sulla camorra o sulla CIA si può fare: ma sugli stilisti no, impossibile.

L’unica strada come sempre era il Trojan Horse. Colpire dall’interno, sotto mentite spoglie.

Sabotaggio neo-situazionista.

 

 

Ancora non esistevano i blog. Così comincio a raccogliere dati e materiale fingendomi un laurendo adorante con la sua tesi celebrativa sul made in Italy. L’idea è un libro-verità, un pamphlet, un j’accuse.

Quindi mi occorreva uno pseudonimo dietro il quale lasciar intendere la presenza di un grande imprenditore, così da ottenere l’attenzione della stampa servilista. Infine un piccolo editore autorevole che pubblicasse e distribuisse il libro.

Niente da fare. Anche qui, occorreva usare le armi del nemico: se chiami un editore e gli dici ho un libro che è una bomba, ti mette giù il telefono, se gli dici ho un libro camomilla e trenta milioni da spendere, ti viene a trovare il giorno dopo.

Per fare un libro pagato – non avendo come sempre il becco di un quattrino – mi occorreva dunque un mecenate disposto a finanziare l’operazione senza alcuna prospettiva di profitto.

 

Parliamone a Boggi – mi disse Baroli – il vecchio Boggi ha sempre odiato il sistema della moda.

Il vecchio Boggi fu entusiasta, da anni cercava qualcuno che scrivesse un libro verità sul sistema della moda (avrei dovuto riflettere sul perché non l’avesse ancora trovato, in effetti) al punto che era disposto ad aprire la borsa e divenne egli stesso fonte di notizie interessanti:

ad esempio: le camicie cotone uomo Boggi, vendute allora  a 40.000 lire, e le camicie uomo della Standa, vendute a 25.000 lire, e le camicie uomo di Armani, vendute a 120.000 lire, erano le stesse, ma proprio le stesse, prodotte in India dal suo amico Bora.

 

Per l’edizione scelsi Lubrina, allora diretta da Claudio Calzana (che oggi dirige il marketing de L’Eco di Bergamo) a cui va il merito di aver inventato il nome dello pseudonimo: Sean Blazer.

Sean come Sean Connery, l’agente 007, e Blazer come Blazer, che vuol dire “strillone”, nome della nave inglese addetta alle comunicazioni divenuta celebre per l’estro del comandante, che fece fare le divise blu (nella stiva c’era una pezza di tela blu) in occasione della visita della regina, che apprezzò (così nasce il Blazer, la giacca blu con i bottoni dorati).

Così pubblico il pamphlet come Sean Blazer (“Mercanti di moda”, Lubrina 1997, retro di copertina: Sean Blazer è uno pseudonimo sotto il quale si cela un imprenditore fin troppo noto…) e lo mando a tutti i giornali. I pesci abboccano.

Le prime recensioni appaiono su Il Manifesto e Milano Finanza. Ci si chiede se Sean Blazer sia De Benedetti o Luciano Benetton.

 

Il libro va esaurito.

Boggi non resiste. Rilascia un’intervista a Diario dove si rivela come imprenditore di sinistra (!).

Subito dopo Panorama fa un reportage di 4 pagine con la mia foto e rivela che Sean Blazer è un anarchico di destra (!).

 

La mia idea su Sean Blazer era quella di un nome collettivo che chiunque potesse usare come scudo-egida, tipo Luther Blisset. Speravo che dieci, mille Sean Blazer saltassero fuori ad alimentare l’incendio.

Invece dopo tre settimane, visto che dietro non c’era Benetton né un pari requisiti, era tutto finito e l’unico ad essere rimasto bruciato era il sottoscritto.

Nella mia ingenuità, immaginavo che dopo questo attacco al sistema tipo Davide contro Golia (un lavoro giornalistico con i fiocchi, a parere di tutti gli addetti ai lavori) mi si sarebbero spalancate le porte della grande editoria, o del grande giornalismo.

Sbagliato. Anche da L’Eco di Bergamo, per il quale scrivevo di arte sacra, altra mia passione castrata, fui allontanato col marchio di “inaffidabile”. Invece del Pulitzer, mi ritrovai con un pugno di mosche.

 

Crisi.

Per trovare lavoro, dovetti cambiare nome e sesso (Alice Lewis) e rivolgermi all’unico settore editoriale dove vige piena e totale libertà d’espressione: Harmony, Confidenze, Intimità e Grand Hotel, romanzi rosa e fotoromanzi.

In seguito non sono mancate altre sorprese amare (la metamorfosi possessiva del vecchio Boggi, identificatosi totalmente in Sean Blazer) ma anche alcune soddisfazioni (la stima di Benedetta Barzini, che volle conoscermi, e inserì il testo di Sean Blazer nel programma d’esame del suo corso di Storia della Moda all’Università di Urbino)

e qualche sorpresa tardiva, come la telefonata di settimana scorsa, quando mi si invita a una trasmissione televisiva sulla moda, per discutere se il mio pamphlet, che ha ormai 14 anni, sia ancora d’attualità.

Mi fanno notare che anticipa di un paio d’anni parecchi dei ragionamenti che hanno poi fatto la fortuna del best seller planetario “No Logo” della Klein.

 

Così vado a questa trasmissione, leggo qualche brano, divulgo semplici verità e vengo assalito  dalle pr che lavorano per la Camera della Moda

(e anche insultato, fuori onda: voi intellettuali del cazzo che non fate un cazzo dal mattino alla sera e venite a tirare merda sulla gente che lavora)

ma se non altro conquisto i ragazzi del pubblico, che poi vengono a stringermi la mano.

Il giorno dopo guardo la registrazione e mi rendo conto dell’effetto casualmente o paradossalmente destabilizzante della trasmissione.

 

Esempio: io spiego il meccanismo del valore culturale aggiunto che fa vivere tutto il sistema mediatico parassita, e dopo la pubblicità viene mandata l’intervista al boss Boselli che trionfante dice: 2000 giornalisti alla fashion week! (alla Fashion Week, non in Siria!).

Quindi si torna in studio, io spiego che le banche strozzano tutto il popolo della partita iva, artigiani e piccole imprese per poi finanziare con centinaia di milioni di euro queste griffe che non restituiscono niente e costruiscono alberghi a Dubai, ed ecco dopo la pubblicità l’intervista al boss Moschillo, che con perfetto mix di arroganza e servilismo si vanta dell’appoggio di istituzioni e banche per rilanciare il made in Italy!

Cosa dire? Fare un libro per definizione effimero, un pamphlet,  sull’argomento più effimero che ci sia, la moda,  e ritrovarselo poi come testo universitario, e passati 14 anni scatenare ancora un putiferio, e tutto questo senza fare carriera e senza guadagnare un euro, beh, sono soddisfazioni impagabili.

Per tutto il resto, ci vorrebbe la Mastercard honoris causa.

(Per darti un’idea in tre minuti, ho selezionato alcuni spezzoni e li ho “caricati” in rete > clicca qui per vederli: www.youtube.com/user/officinabad)

Crisi.

Imago: archittture sospese by Jennifer Gandossi

 

 

 

47 TFIC – 15 paraletteratura lucrosa

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15 paraletteratura Mondadori

guadagnare milioni scrivendo a cottimo

L’editor di Confidenze mi chiama e mi dice che vuole pubblicare un racconto (l’ex porno).

Il compenso è 350.000 lire. Salto sulla mia Kawasaki e dopo 19 minuti, partendo da Bergamo,  sono nella redazione di Confidenze, a Segrate, palazzo Mondadori.

L’editor di Confidenze è una donna sui 55-60, immaginatevi Emilio Fede donna (forse era sua sorella naturale) e piacente.

Alle sue spalle una targa con una frase di Pitigrilli avvisa: “Va bene il bacio al lebbroso, ma la mano al cretino no”.

Il compenso è 350.000, mi dice. Ok.

Pseudonimo? Non ci avevo pensato.

Così scrive il mio nome e cognome, Leone Belotti, e improvvisa un anagramma: dopo pochi minuti, dal battito della Bic rossa, nasce l’immortale Iole Belnotte, destinata a diventare in breve la nuova autrice più amata del settimanale femminile più venduto (Confidenze).

Non prima di un piccolo giallo che vale la pena raccontare, perché rientra nelle cose assurde che possono capitare all’aspirante scrittore.

Succede questo: il mio primo racconto è stato appena pubblicato, è in tutte le edicole, ovviamente ne compro una copia e passo la serata a ubriacarmi nei bar, così la mattina dopo, quando mi suona il telefono prima delle 9, sono veramente rintronato e non capisco quello che mi dicono.

Mi dicono, dallo studio legale della Mondadori, che vogliono chiedermi 2 miliardi di danni. Cado dalle nuvole, e dal letto.

Crisi.

Il fatto è questo: nel numero di Grand Hotel già in edicola quando esce Confidenze, c’è un fotoromanzo che in pratica è la versione con foto, nuvolette e didascalie, tale e quale, stessi dialoghi, stessi nomi dei personaggi, del mio racconto su Confidenze.

L’assassino però non sono io, è il tizio a cui io in buona fede avevo mandato i racconti.

A me parlava come editore di una nuova iniziativa editoriale, intanto vendeva come suoi i miei racconti a Grand Hotel.

Quindi occhio alle fregature, quando mandi tua roba a gente che non conosci (ma anche a gente che conosci, dal momento che non si finisce mai di conoscere qualcuno) e soprattutto quando mandi la stessa roba a più gente, importante mettere per scritto “materiale in visione” e in seguito, trovato un acquirente, diffidare gli altri dall’uso.

Non si finisce mai di pararsi il culo.

Nel mio caso, rischiavo di essere citato per 2 miliardi, a causa di un racconto del valore di 350.000 lire.

Il danno era questo: che queste novelle vengono vendute per vere (e spesso lo sono) e dunque centinaia di lettrici leggendo la stessa storia su Grand Hotel e Confidenze hanno dedotto che queste storie sono finte e addirittura copiate, così hanno mandato lettere e telefonate di protesta, richieste di disdetta di abbonamenti, a entrambe le testate.

Un casino dal quale sono uscito fortunatamente indenne, stante il riconoscimento della mia buona fede (chiaramente il vecchio lupo si difendeva sostenendo che io gli avessi mandato quelle storie con piena disponibilità d’utilizzo, certo, intanto lui le pubblicava e vendeva a suo nome).

Superato questo shock, continuo a scrivere per Confidenze, in modo sempre più intenso. In certi numeri c’erano più novelle mie e a volte un romanzo breve staccabile.

Mi specializzo in storie ambientate nel Ventennio, frequento le case di riposo e faccio parlare le belle ottuagenarie. Le novelle e i romanzetti ambientati nel Ventennio riscuotono un grandissimo apprezzamento dalle lettrici.

Ogni tanto me le immaginavo: un milione di donne,  cioè dieci stadi di San Siro strapieni di donne che leggono la mia novella.

Dirai: il successo! Si, trecentomila copie vendute ogni settimana, forse un milione di lettrici e una montagna di lettere (indirizzate a Iole Belnotte, donne, amiche che fondamentalmente mi ringraziano per averle fatte piangere, a volte solo una parola, un complimento, quasi dei like di facebook ante litteram): non ci crederai, ma ti assicuro che non ci stavo dentro.

Questi qui, cioè la Mondadori, mi pagavano trecentomila lire per una novella con cui riempivano dieci pagine o seicentomila per un romanzetto di venticinque.

Mediamente portavo a casa un milione e mezzo al mese, a volte meno, perché cercando sempre di infilare temi pesanti nella leggerezza della storia d’amore spesso la caporedattrice mi guardava di traverso, e non pubblicava, e non pubblicando, non ti pagano.

Considera poi che tu consegni oggi una storia che va in stampa tra uno-due mesi, quando va in stampa aspetti la fine del mese, e a partire da quel momento passano tre mesi esatti prima che la grande amministrazione dia disposizione di fare il bonifico, dopodiché tra una banca e l’altra sono capaci di far passare un altro paio di settimane.

Morale: lavori oggi, prendi i soldi tra sei mesi, in banca, e se sei già in rosso non li vedi neanche.

Crisi.

Se fai i conti in pratica tu vendi per trentamila lire una pagina di sogni ed emozioni, questa pagina di prodotto a loro costa trentamila lire e gli permette di vendere a trenta milioni la pagina pubblicitaria,

e il marchio che acquista la pagina pubblicitaria accanto alla tua bella pagina diventa il vero autore dei sogni e delle emozioni che tu hai “svenduto” ai signori dell’editoria, pensando comunque di regalarle al pubblico, mentre in realtà le regali al padrone di un’azienda di creme rassodanti con la mediazione del grande editore.

A questo punto capisci di essere davvero una mosca del capitale, e della peggior specie, poi pensi anche al tuo affitto, sai che con  40 caratteri di head line o pay off o claim guadagni come 20.000 caratteri di grande letteratura popolare,

allora mandi a quel paese e il grande editore e la paraletteratura e l’intellettuale organico nazional-popolare, e fai il copy delle creme rassodanti e abbronzanti, e anche delle linee shampoo.

Crisi.

Ma ecco che una bella mattina, mentre sto prendendo il sole al lago di Garda, mi suona il telefono, è il direttore di Confidenze: nella notte Lady Diana si è schiantata come una qualunque shampista.

Bingoo! Cioè, pace all’anima sua, ci vuole un instant book, la missione è: 270 pagine in nove giorni!

Prendo tempo (!) faccio due telefonate, scopro che prima di me hanno interpellato una delle due “regine del rosa italiano” che ha chiesto tot, chiedo metà di tot, lo ottengo, mi firmo Alice Lewis, l’opera si intitola “Il sogno infranto”, è allegata a Confidenze.

Vedo Silvana Giacobini aggirarsi nei box delle redazioni di Segrate, sventola il mio capolavoro e dichiara: è la cosa migliore che ho letto quest’anno. Direi che questa è la massima soddisfazione che ho avuto come autore di paraletteratura.

Da non sottovalutare l’aspetto soldi, avendo portato a casa grazie a Lady Diana (sia lode) quel genere di cifra che ti permette la routine ideale dello scrittore, che a mio parere è questa:

in un mese nel bunker scrivi un romanzo che ti permette di vivere tre mesi,

cioè quello nel bunker e i due mesi successivi al cazzeggio integrale,

magari in qualche altra città o ambiente che ti attira per un qualche motivo,

o anche restandotene nel bunker a giocare a poker per entrare nello spirito giusto per buttare giù un sequel di “memorie del sottosuolo”,

o altro testo pro gloria imperitura o per caduco gaudio,

in attesa della prossima…

crisi.

imago: architetture sospese, 2013 by Jennifer Gandossi

www.jennifergandossi.it

 

 

47 TFIC – 13 paraletteratura rosa

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13 paraletteratura rosa

far piangere milioni di donne 

Scrivere rosa, far piangere le signorine, le loro mamme e anche le nonne, è sempre stata la via maestra per la carriera di scrittore, la prima palestra, l’esercizio di stile formativo, una lunga tradizione, tutti i grandi romanzieri ci si sono misurati, dai romanzoni-feuilleton francesi di fine ottocento, alla scuola italiana con lo sviluppo dei sotto-generi.

Ad autori come Liala, Salgari, Guido da Verona, Pitigrilli si deve l’esplosione della narrativa popolare in un arcobaleno di sfumature dal rosa al giallo al nero all’erotico, e l’invenzione di format nuovi, il fumetto, il fotoromanzo,

un periodo che va dagli anni Trenta agli anni Sessanta-Settanta, quando la televisione uccide tutti i generi, e la scuola italiana  presenta l’ultimo maestro, il grande Scerbanenco, oggi autore di culto, idolo dei nuovi giallisti e ristampato in Adelphi, ma ai suoi tempi autore di novelle e romanzi rosa  per i settimanali femminili.

Ancora oggi ti capita di trovare su bancarelle o in librerie remainders prime edizioni di romanzi di Scerbanenco a 2 euro, con illustrazioni “rosa” in copertina, mentre in libreria lo stesso romanzetto viene proposto nella linea “alta cultura” a un prezzo dieci volte superiore con copertina design (lo stesso accade ai gialli di Simenon-Maigret), tale che mai uno si immaginerebbe che quel testo sia stato originariamente pubblicato a puntate su Intimità o Confidenze.

Scrivere novelle rosa vuol dire confrontarsi col grande pubblico.

Al grande pubblico non interessa minimamente chi tu sia e quanto sia bravo a scrivere, cioè a immaginare e fingere.

Il grande pubblico, nel caso del rosa, vuole divorare compulsivamente, sognare, emozionarsi, piangere per la storia in sé, come fosse vera, come fosse propria, la lettrice compulsiva capisce subito se stai menando il can per l’aia,  dunque non va sottovalutata la sincerità emotiva della storia, devi davvero tirarti fuori il cuore, o tirarlo fuori alle tue fonti.

L’approccio alla scrittura popolare, bassa, richiede più impegno, più dotazione psichica, più attenzione, più lavoro e responsabilità dello scrivere alto, “letterario”, artistico.

Se un tuo racconto letterario viene pubblicato su una rivista di poesia snob, sarà diffusa in qualche centinaio di case dove sarà letta da qualche decina di persone.

Poche ne vendono, e ancor meno vengono lette.

Se la tua novella rosa viene pubblicata su Confidenze sarà venduta in 300.000 copie e letta da un milione di persone, perché in ogni casa, da ogni parrucchiera, estetista, quella copia viene letta da 2,3,5, 10 persone.

E possiamo presumere che tu venga anche pagato.

Eppure su 1000 aspiranti scrittori forse 2 si misurano davvero con la narrativa di genere, popolare, il rosa, il giallo vero

(non quello di moda: qualsiasi romanzo strampalato con dentro un morto ti viene propinato come un giallo, magari con un aggettivo intrigante, tipo “un giallo gastronomico”, e io immagino le segrete vicende di un tuorlo d’uovo andato a male).

Il giallo vero, come il rosa e qualsiasi altro genere, ha delle regole, che tu puoi anche cambiare, infrangere, ma devi sapere che esistono, che sono nella mente dei lettori, che per questo ti comprano.

Ci sono regole, o meglio programmi, riguardo al lessico, ai tempi verbali, alla struttura narrativa, il meccanismo del climax, del flash-back, del flash-on, la doppia linea narrativa, armonia e melodia, la scansione dei movimenti-capitoli, adagio-allegro-andante, il patto con il lettore, il narratore interno o esterno.

Oltre a tutto questo, occorre la storia, una storia vera, con l’anima, la passione, il mistero, che catturi completamente i lettori come persone che pendono dalle tue labbra (pagine).

Le lettrici di rosa non sono lettrici annoiate, sono fameliche, e se gli dai il brodino allungato te lo sputano il faccia.

La prima cosa che mi ha detto l’editor di Harmony è stata:

per fare lo scrittore di seria A possono bastare le raccomandazioni, per fare lo scrittore di serie B devi essere davvero capace”. – segue

imago: architetture sospese, by J.Gandossi 

www.jennifergandossi.it

 

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 12

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12 case history writing

il biografo aziendale

Se proprio vuoi essere pagato per scrivere romanzi, l’opportunità più concreta è diventare uno scrittore di case history,  biografie aziendali,

non devi far altro che considerare l’azienda come un romanzo, tutti i generi risultano utili, dal romanzo di formazione alla saga familiare (dal mitico fondatore ai nipotini-mecenati).

Tutto può iniziare dalla classica paginetta che ti chiedono per la brochure o il sito, chi siamo,  la nostra storia.

Quella deve essere l’occasione per colpire al cuore l’imprenditore facendoti raccontare la sua storia e riscrivendola con belle parole, con richiami al quadro della grande storia, dandogli senso e dignità

e aprendo la strada, a seconda dell’età e delle aspettative del committente, a un volume sulla storia dell’azienda (tenere d’occhio i centenari) o a un libro autobiografico di memorie d’impresa.

Importante fargli capire che lavori come loro, produzione, consegna, tempistica,

dopo avergli dato un assaggio deve scattare il progetto con preventivo, gli devi promettere un libro firmato da lui in 2-3 mesi, con incontri-interviste settimanali o mensili, 30% anticipo e saldo alla consegna.

Gli inconvenienti, chiaramente, sono all’ordine del giorno.

Mi è successo, ad esempio, dopo aver intervistato per due mesi un riservato e ricchissimo signore, di quelli mitici, che hanno iniziato a lavorare a 12 anni e per una serie di motivi (boom economico) si sono ritrovati dapprima a mettersi in proprio, poi col cognato e il fratello, poi con un dipendente, poi cinque, poi venti, poi il capannone, e in breve alla soglia dei settanta si ritrovano plutocrati, a guidare società per azioni con sedi in mezzo mondo,

mi è capitato, dicevo, che una volta consegnatogli il suo libro, con la sua storia, con le sue parole, questo signore, leggendolo, sia entrato in una crisi d’identità tale per cui non ha più voluto vedermi, né stampare il libro,

e abbia invece cominciato ad andare dallo psicologo.

Questo succedeva diversi anni fa.

Crisi.

In ogni caso, il momento giusto per l’entrata in scena del biografo aziendale è al cambio generazionale.

Bisogna capire subito la situazione: se i figli vogliono giubilare il boss, il libro è l’occasione perfetta per togliere dai piedi il vecchio; se invece il boss è saldo e i figli un po’ ciula, il libro è lo strumento ideale per mettere le cose in chiaro e rimettere i bamboccioni scalpitanti al loro posto.

Sbagliare mossa o referente, dire la cosa sbagliata alla persona sbagliata – e succede facilmente perché ogni azienda/famiglia è sempre una dinasty con un magma di faide e invidie sotto la patina della grande favola,  ti pregiudica  il lavoro, indipendentemente dalle tue capacità.

C’è poi il caso dell’imprenditore senza figli che ti dice: si, mi piacerebbe, lo farei se avessi figli e nipoti:

devi essere pronto a ribattere: un motivo in più per lasciare ai posteri nero su bianco la propria eredità morale, la propria storia.

C’è il caso dell’imprenditore che dice: ne avrei non uno, ma dieci di libri da scrivere su quello che ho visto nel mio ramo.

Gli dirai: cominciamo dalle radici.

C’è quello che dice: mi piacerebbe, ma non ho nessuna storia da raccontare, ho iniziato trent’anni fa a fare guarnizioni per frigoriferi, e per trent’anni non ho fatto altro.

Gli dirai: ha mai pensato che ognuna delle guarnizioni da lei prodotte è entrata in una casa dove una famiglia ogni giorno ha aperto quel frigo, se raccontassimo la storia di una sola di queste guarnizioni avremmo già un romanzo sulla vita italiana, grazie a lei.

Il caso più difficile, non raro, è l’imprenditore che a questo punto con gli occhi lucidi ti dice: sì, ho sempre sognato di scrivere un libro, ma non le mie memorie, a chi importano, invece vorrei scrivere un libro su….

Devi bloccarlo, prima che continui a parlare.

Il vero pericolo è lavorare gratis.

Già lo fai per te stesso, vorrebbero che lo facessi anche per loro, che del resto ti danno gratis l’idea.

Loro non vogliono fare un libro per guadagnare dei soldi, ma per amore dell’arte, eventualmente i proventi li diamo in beneficenza,

e chiaramente vorrebbero da te lo stesso approccio.

La risposta giusta sarebbe: bellissima idea cavaliere, la capisco,

pensi che io scrivendo libri da una vita ho sempre avuto il sogno di guidare un’azienda,

allora facciamo così, per i prossimi sei mesi mentre lei si dedica a tempo pieno e gratis al romanzo, io nel frattempo le guido l’impresa e incasso utili e dividendi al posto suo,

potremmo scambiarci anche la casa e la macchina, per realizzare fino in fondo questo sogno.

Gli metti sul tavolo le chiavi della tua Fiesta, e prendi quelle della sua Cayenne.

C’è stato anche uno che mi ha detto: affare fatto!

Solo che il Cayenne era della banca, l’azienda perdeva centomila euro al mese,

e alla villa la governante ucraina venticinquenne specializzata in sado-maso era abituata a essere salariata in contanti tutti i venerdì sera,

tutte cose che io non ero preparato a fronteggiare,

abituato il venerdì sera a stare con tenere fidanzate lombarde

che mi portano fuori a cena pagando loro e facendomi anche il pieno della Fiesta.

(imago: Lee Iacocca, manager anni 70 della Chrisler, italo-americano, autore di una delle più leggibili autobio del settore manager-industria,  sottogenere solitamente al top della noia) 

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 11

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Pierina

11 Paraletteratura cattolica

Le opportunità dell’iconografia cristiana

Un grande art che mi ha fatto da magister (oltre che farmi lavorare con lui per alcune agenzie storiche) il primo giorno nella grande agenzia mi ha detto:

adesso ti porto in un posto dove ti terrò una lezione sostitutiva dei 4 anni di scienze della comunicazione o similari.

Mi ha portato in una chiesa.

Tra una bestemmia e l’altra, mi ha detto: l’immaginetta della Madonna è la base della pubblicità, qualsiasi foto pubblicitaria si basa sull’arte sacra, qualsiasi spot non è altro che il remake della scena di Adamo ed Eva, dove tu, il pubblicitario, fai la parte del serpente.

Nelle vite dei santi ci sono già tutti i miracoli del nuovo rasoio, del nuovo detersivo, della nuova sottoveste.

Ti serve un nuovo eroe, un testimonail ideale? Cerca il santo giusto, riportalo in vita, efficacia garantita.

Nell’iconografia sacra, composizione, taglio immagine, toni, uso della luce c’è già tutta la pubblicità di moda. D’accordo.

Quello che non ho ancora capito, e che lui si è sempre rifiutato di spiegarmi (lo capirai da solo) è come mai questo ricchissimo patrimonio narrativo-iconografico, sia oggi così poco e male utilizzato dall’azienda in questione (la chiesa).

Mi spiego. Fino al Sette-Ottocento l’iconografia sacra è stata il media-linguaggio leader,  continuamente rinnovato. Con l’arrivo dei linguaggi laici, dell’arte laica, dell’immagine laica, dagli impressionisti in poi fino alla pubblicità, alla fotografia, alla tv e al web, il linguaggio del messaggio-azienda cattolico ha smesso di evolversi.

La mia domanda è: perché l’immagine cattolica è così vecchia, triste, perché le immaginette sono ancora quelle degli anni Cinquanta, perché qualsiasi cosa dal bollettino parrocchiale ai paramenti sacri è rimasta ferma a un gusto superato, poco attraente?

Sono convinto che rinnovare il linguaggio arte sacra-immagine coordinata del leader di mercato religioso – la chiesa cattolica – sia una dei pochi grossi business di comunicazione rimasti.

Ogni volta che mi capita di lavorare per qualche azienda del gruppo Vaticano ci provo.

Così, quando un editore cattolico mi chiede testi e idee per un libro fotografico sulle chiese barocche della diocesi, propongo e realizzo un format inedito, una specie di foto-romanzo devozionale di gusto contemporaneo

(cos’altro sono i servizi moda di Vogue dove un’allucinata anoressica seminuda si aggira con espressione mistica in qualche location straniante?).

Le immagini delle diverse basiliche illustrano brevi “romanzi paralleli” che hanno questo schema: il narratore è un peccatore che in prima persona, in flusso di coscienza-preghiera, tra i banchi della chiesa, confronta le vite dei santi del posto e la sua vita di peccatore moderno.

Il libro viene pubblicato e dato in omaggio a decine di migliaia di persone (non ricordo se correntisti di una certa banca o abbonati di un certo giornale o entrambe le cose).

Vengo a sapere che piace molto al segretario del vescovo, un po’ meno al vescovo.

Accetto di scrivere testi per un Museo Diocesano, ho un mio tavolo nel centro studi che fa parte della struttura, ma dopo due giorni nella cripta circondato da memento mori sono già sessualmente frustrato come quelli che ci vivono da vent’anni.

Esco a bere un caffè e quando rientro scrivo: “Malattie stagionali primaverili/ la città comincia a pullulare di donne mozzafiato e tu soffri d’asma: raffreddore da figa”.

Fine della mia esperienza di Church-writer. E pensare che ero già diventato papista, e propugnavo la Chiesa come committente di ogni opera della spirito.

Crisi.

In seguito, in varie occasioni ho proposto a fotografi amici, sempre in cerca di temi per un calendario fotografico, di realizzare un calendario (con modelle, location, abiti e truccatori) di sante e santi da riscoprire, adatti ai tempi.

Più d’uno si è molto eccitato all’idea, che poi non ha avuto seguito. Troppo difficile.

Crisi.

Più recentemente con Athos Mazzoleni e Mattia Dal Bello, per far vedere questa mia idea dell’attinenza tra arte sacra e fotografia di moda, ho creato una performance e un video dal titolo “Macabre Dance 2011” (visibile in http://vimeo.com/34066507) dove un affresco capolavoro d’arte sacro-funeraria medievale (la Danza Macabra di Clusone) viene affiancato da affissioni di pubblicità moda, con effetto di doppia perversione, per cui le pitture sacre paiono sexy mentre i modelli delle griffe si rivelano macabri.

L’abbiamo mandato al premio arte Laguna, sezione video-art, alla selezione finale la giuria si è divisa, niente premio.

Crisi.

Nel contesto barocco delle basilica, però, mi viene una nuova idea. Creare un gruppetto di musica pop, i cattogay, che sono tre chierichetti, con incenso, campanellino e smorzacandele, che canticchiano un motivetto tecno-dance che ha come testo: mi pento e mi dolgo, o Gesù d’amore acceso, non ti avessi mai offeso, e altri catto-haiku.

Lo proponiamo a Gian Franco Bortolotti, già produttore di hit dance come “Touch me” con la sua etichetta “media records”.

A Bortolotti l’idea piace, mi chiede di scrivere il testo definitivo mentre lui cerca gli interpreti adatti. Sul più bello un giorno leggiamo sul Corriere: “Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati”, recita Madonna nel suo nuovo album in un brano-confiteor che si intitola non a caso «I’ m a sinner» («Sono una peccatrice»). Il disco esce il 26 marzo in tutto il mondo. Promette faville, anzi di più, visto che ha totalizzato il più alto numero di prenotazioni della storia di iTunes.

Fine del progetto “mi pento e mi dolgo”.

Crisi.

Dopo quest’ulteriore delusione, ho scavalcato il fosso, mi sono immedesimato nel prossimo papa, Leone XIV, e ho scritto un’enciclica, la Rerum Novissimarum, versione turbo della Rerum Novarum ottocentesca di LeoneXIII, sorta di manifesto degli indignati cattolici, in opposizione al conservatorismo destrorso di Papa Razzi.

Chi poteva prevedere di essere scavalcato dalla realtà, e ritrovarsi un vero papa super-sovversivo come il mitico Cecco della Pampa?

Crisi.

(imago: Anima Virgo-Pierina Morosini by Athos Mazzoleni,

prove d’immaginetta per NaturalMente2013)

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 9

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9 concept writing 

creare una mitologia di marca 

Chiamo concept writing la scrittura della scheda madre di un programma commerciale, di un prodotto, una linea, un’azienda, un marchio, un’istituzione, un partito politico, una minestra, un gelato, un movimento d’opinione.

Il nome, lo slogan, l’idea su cui si basano le sinergie, le strategie, il business plan, ecco cosa intendo per concept writing, dare forma e funzione a un’idea, dargli un’anima, un’anima comune a un target psico-emotivo, prima che sociale.

Il target sociale è consequenziale, viene dopo, cioè: nella mente dell’uomo di marketing viene prima, ma viene dopo nella mente del creativo, dove nasce ciò che viene prima di ogni applicazione marketing.

In principio era il verbo.

Quindi l’immaginetta della madonna.

La pubblicità è tutta qui.

In quel verbo iniziale c’è tutto il valore e la forza evocativa del prodotto, che è sempre un prodotto psichico, anche quando è un biscotto, come ha bene spiegato Proust nella sua ricerca del tempo perduto e ha ben compreso Alberoni quando ha detto a Barilla di chiamare “Mulino Bianco” la sua linea biscotti.

Il concept writing, come ogni adv writing, è una scrittura in primo luogo mentale, una de-scrittura, una riduzione in cerca del gesto vitale primitivo, che è fatto di due parole, con dentro la pulsione, la radice dell’architettura semiotica che poi verrà progettata intorno, per stare in tema.

Ecco, il concept writing è il progetto interno al “progettato intorno”.

La mitologia originaria, il paradiso perduto, qualcosa capace di proiettare un sogno senza fine. Una frase, un nome, un’immagine, un’icona, una favola.

A volte crei un concept formidabile senza nemmeno rendertene conto.

È il destino del creativo. Immaginare mondi fantastici che poi altri costruiranno con successo.

Nella mia esperienza, il caso topico è l’ideazione della favola Pinco Pallino.

Siamo nel  1994, mi pare, quando Enrico Baleri, che sta progettando la sede di questo marchio di moda bimbo di lusso, Pinco Pallino, mi chiede una fiaba in tot battute, che in origine doveva decorare come un invito-richiamo gli esterni della fabbrica-atelier,ma una volta vista la favola hanno pensato bene di farne qualcosa di molto più pervasivo, un tipo di comunicazione nuovo,

una favola aziendale invece di una filosofia aziendale,

una favola usata come layout, logo, marchio, filosofia aziendale, immagine coordinata, parole che diventano tappezzeria, moquette, poltrone, maniglie, sacchetti, vetrine, pubblicità, tutto. Una favola-logo.

Su questa favola hanno disquisito sociologi, uomini marketing, pr.

Hanno fatto libri, corsi di comunicazione, spettacoli, galà di beneficenza.

Oggi Pinco Pallino fattura decine di milioni di euro, la mia fiaba è scritta a caratteri cubitali sui muri della sede, sulla moquette di tutti i negozi del mondo, sui sacchetti, sulle magliette, sulle etichette, sulle pubblicità, sui cataloghi, ovunque insomma, e in occasione delle sfilate invitano Lella Costa a recitarla.

Io naturalmente non ho più visto una lira.

Creare il concept base di un business gigante, e restarne escluso, nella realtà succede di frequente, e se sei un creativo indipendente hai poco da fare, loro possono permettersi avvocati e cause decennali, tu no.

Oggi molti bambini della classe dirigente di fine millennio, cresciuti a moda Pinco Pallino, sono ormai ragazzi e ragazze che studiano scienze della comunicazione, ed è ora che sappiano cosa c’è dietro le favole in cui sono cresciuti.

La vera storia della favola di Pinco Pallino, ad esempio, nessuno la conosce, nessuno l’ha mai raccontata, eppure è una storia molto indicativa, non per bambini forse, e forse un po’ triste, ma piuttosto istruttiva.

Siamo nei primi anni Novanta del secolo scorso.

L’idea viene, come dicevo, a Enrico Baleri, e l’idea in origine è: una favola per decorare gli esterni del nuovo capannone-atelier di questo marchio moda bimbi di lusso, Pinco Pallino, un marchio allora in rampa di lancio.

A quel tempo io ero uno dei tanti giovani copywriter che ronzava intorno a Milano Poesia, Salone del Mobile, e quadrilatero della moda. Baleri mi chiama e mi chiede se voglio provare, max 1500 caratteri.

La sera stessa, come tutte le sere, sono dietro il bancone del bar delle ex carceri, a Bergamo Alta. Già sul tardi entra un ragazzo che conoscevo fin da bambino, Ale, biondo, occhi azzurri, sempre stato un leader nelle bande dei ragazzini di quartiere.

Quindici anni dopo, quella sera al circolo, Ale era già da anni rovinato, tossicodipendente, alcolizzato, ma era ancora un bambino curioso, e così, quando mi chiede – che problemi hai stasera scrittore? – glielo dico, gli dico – devo inventare una favola per bambini.

E lui, guardandosi allo specchio – lo specchio della birra Tennent’s – comincia – c’era una volta un bambino con gli occhi blu.

Poco dopo, al secondo giro di birre, era arrivato il Rosso. Poi era arrivata lei, Mery, che da ragazzina andava spensieratamente con tutti, una vera bomba, diabolicamente bella, e a un certo punto, diventata donna, si era ritrovata prostituta, alcolizzata e tossicodipendente.Io spillavo birre a ruota.

La creazione della favola era diventata un lavoro d’equipe.

Chiuso il bar, alle tre di notte avevamo proseguito il brain storming sulle panchine delle mura venete, con una cassa di Ceres, sul prato dell’ultimo bastione.

C’era anche il mio collega barista, P., discendente di Simone Pianetti, detto Pacì Paciana, il brigante della Val Brembana, e anche un certo M., che chiamavamo “Ritardo”.  Ricordo che fummo anche controllati da una pattuglia dei Carabinieri.

Fu in quell’occasione che Ale, il bambino con gli occhi blu, alla domanda fendente del maresciallo “Mai avuto problemi con le droghe?” rispose con la spettacolare volèè “no, mi sono sempre trovato abbastanza bene”.

Nel frattempo Mery faceva gli occhi dolci, e cercava di prendere per mano i due Carabinieri dicendo “il verde, il colore più bello è il verde”.

Maresciallo e brigadiere si erano scambiati uno sguardo e avevano deciso che potevano anche lasciarci perdere. In fondo non stavamo facendo niente di male (a parte creare un brand nel settore lusso).

La mattina dopo, uscito dai fumi del doppio malto, avevo buttato giù la favola dei colori, l’avevo mandata a Baleri, Baleri ne era rimasto entusiasta, Imelde e Stefano Cavalleri, i titolari di Pinco Pallino, anche loro entusiasti, le pr entusiaste, la Sozzani entusiasta, tutti entusiasti.

E in breve la favola dei colori diventa una favola-brand, il manifesto dei bambini di lusso, la si ritrova in tutte le occasioni mondane, viene recitata da Lella Costa, e sfilate, eventi, mostre, iniziative, convegni, congressi, cultura, beneficenza e catering tutto di altissimo livello, e per anni leggo che Pinco Pallino realizza fatturati record e apre nuovi “negozi-favola” in tutto il mondo, mentre io, l’autore della favola, faccio il lavapiatti, e crepo di fame ignorato da tutti.

Cos’è successo? Mi hanno tagliato fuori dalla favola, un classico, il giorno prima mi amano come un figlio, il giorno dopo mi considerano un uomo morto.

Avrai fatto qualche cazzata delle tue? Beh, si, certo.

Sull’onda dell’entusiasmo  i Pinco Pallino mi avevano chiesto di scrivere la loro storia come un romanzo, e io, dopo aver inquadrato i personaggi, avevo cominciato a scrivere, ma per sbaglio gli avevo mandato la versione top secret, quella vera, che scrivevo per me, e iniziava descrivendo i due stilisti-committenti con queste parole: “E’ chiaro che lui da bambino giocava con le bambole, mentre lei torturava i gatti”.

Risultato: si offendono a morte, mi mettono sulla lista nera, e mentre la favola aziendale vola, il team creativo affonda, una storia tipica, e in questo caso anche tragica.

So che Mauro “ritardo” è finito in una comunità di mistici. Pianetti, l’ultima volta che l’ho visto, passava le notti all’Accademia del biliardo.

Ale, il bambino dagli occhi blu, se n’è andato pochi mesi dopo quella serata da favola, di overdose, come nella favole nere.

Mery, la bambina dai capelli rossi, l’ha raggiunto qualche anno dopo, di cirrosi.

Il Rosso pensava di avere l’influenza, è andato a fare degli esami, non è più uscito.

Ma non è una favola triste, per me, che li ricordo bambini correre insieme su quel prato.

C’era una volta un bambino blu innamorato del blu che aveva tutti i vestiti blu, tutti i giocattoli blu e anche gli occhi blu.

Un giorno incontrò un bambino rosso innamorato del rosso che aveva tutti i vestiti rossi, tutti i giocattoli rossi e anche i capelli rossi.

È più bello il il blu – diceva il primo bambino.

È più bello il rosso rispondeva l’altro.

Così passavano intere settimane a discutere, quasi a litigare.

È più bello il blu, è più bello il rosso, finché un bel giorno arrivò una bambina con gli occhi blu e i capelli rossi, la gonna blu e la maglietta rossa.

Qual è il colore più bello? – le chiese il bambino dai capelli rossi facendole una carezza sui capelli rossi.

Qual è il colore più bello? – le chiese il bambino dagli occhi blu guardandola negli occhi blu.

La bambina disse: venite con me.

Li prese per mano, li portò in un bellissimo prato e disse:

il colore più bello è il verde.

(Leone Belotti, copyright 1993-2013, in memoria di Ale, Mery e il Rosso).

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 7

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7 paraletteratura giallo-nera – il mito del concorso letterario

 Conversione alla para-letteratura: abbandono le lezioni di Brioschi per quelle di Spinazzola, in un paio d’anni leggo qualche centinaio di romanzi, l’opera omnia di Ed Mc Bain (quasi cento titoli), Nero Wolfe, Donald Westlake/Richard Starck, Simenon, Scerbanenco, Highsmith, Follet, Cussler, Smith e altri.

Nel 1993 mi lego alla sedia come l’Alfieri e in un mese scrivo un romanzo giallo: è la storia movimentata di un sequestro di animale a scopo d’estorsione, protagonista è il barboncino di Liz Taylor, sottratto a  Zeffirelli che lo portava all’aiuola da due sequestratori-motociclisti. Lo mando al premio Tedeschi-Mondadori per il miglior giallo inedito dell’anno.

Vincitore risulta Carlo Lucarelli (allora semisconosicuto) ma “la giuria segnala inoltre”, e c’è il mio nome, e quattro righe di elogio al mio romanzo.

Scrivo al direttore del Giallo Mondadori: “Siete il più grande editore italiano, mi state dicendo “Bravo” perché ho scritto uno dei due migliori gialli italiani dell’anno e non mi fate vedere nemmeno una caramella?” Nessuna risposta.

Crisi.

Vedo per strada Oreste del Buono, lo fermo, gli rifilo il mio giallo, lo seguo, scopro dove abita, dopo una settimana di appostamenti sotto casa sua lo rivedo, gli chiedo, è molto cordiale, mi dice che l’ha letto, gli è piaciuto, e dunque ha passato il mio libro a suo nipote, e chi è suo nipote? E’ l’editore Baldini&Castoldi. Telefono a Baldini&Castoldi, chiedo del nipote di OdB. Dopo varie chiamate mi rispondono con una certa malagrazia di non molestare gli anziani.

Crisi.

L’unico risultato della partecipazione al concorso del Giallo Mondadori è quello di essere finito in so quale mailing list, sta di fatto che mi arrivano nella posta inviti a partecipare a concorsi letterari vari, città di Cattolica, città di Cefalù, città di Vattelapesca, insomma concorsi per autori di racconti o di gialli o di neri o di qualsiasi altra cosa. E chi presiede la giuria di questi concorsi? Carlo Lucarelli.

Crisi.

Non mi scoraggio, e l’anno seguente partecipo nuovamente, con un nuovo giallo, d’intonazione comica, alla maniera di Westlake, che devi mandare in cinque copie a tue spese, ricevuta di ritorno,  mesi di attesa, finché un bel giorno vedo in edicola un giallo Mondadori con la fascetta “vincitore del premio miglior giallo italiano”, all’interno trovo il comunicato della giuria, con in calce la dicitura: “la giuria segnala inoltre quale secondo classificato il romanzo di Leone Belotti…” . Non ci credo. Deja vu. Secondo classificato per il secondo anno di fila.

Crisi.

Non mi scoraggio, peggio, impazzisco: partecipo per la terza volta, e dal momento che si può concorrere con più opere, gliene mando cinque, nuovi, scritti di getto al ritmo di uno al mese, in cinque copi l’uno, venticinque tomi, anche una certa spesa in copisteria. Risultato: nessuna menzione. In totale 7 gialli in 3 anni, centinaia, forse migliaia di fotocopie, in cambio di 2 menzioni.

Crisi.

Consolati, mi dice un amico, c’è chi passa la vita a fare fotocopie, e nessuno lo menziona.

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 6

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6 paraletteratura misticai misteri del ghost writing 

Per caso, rispondendo a un annuncio, entro in contatto con una maga-veggente alta, bionda, mezzo croata e mezzo tedesca, e di mezza età, di stanza alla libreria esoterica di Milano, dove si ritrovano tutti i mistici e i new age.

Questa signora mi trascina in giro per Milano continuando a parlare, e mi chiede di scrivere il suo libro mistico con promesse di fama e denaro.

Mi metto all’opera, poi non vedendo soldi comincio a pressarla, allora lei mi dirotta sulla figlia che è la sua amministratrice.

La figlia mi riceve in un superattico del centro, più bionda più alta e naturalmente più giovane della madre, davvero una bomba, accessori lusso ovunque.

Io nella mia ingenuità non mi rendo conto che sto parlando con una squillo d’alto bordo che parla col linguaggio del corpo, tengo duro e alla fine la  puledra s’imbizzarrisce e scalpitando per l’attico tira fuori dal bovindo un portagioie, e dal portagioie una mazzetta arrotolata di banconote. Dollari.

Mi chiede se so quanto è il cambio, in un battito di ciglia sputo la cifra, lei mi dà di più e mi sbatte fuori.

Convinto siano finti vado subito al botteghino del cambio che una volta era in corso Vittorio Emanuele a Milano. Erano veri.

Quando qualche settimana dopo vado a cercare la maga per consegnarle il libro finito, non la trovo, è sparita.

Così torno dalla figlia, sparita anche lei, sparito anche l’attico (era un residences in affitto settimanale).

Affido il manoscritto alla libreria esoterica.

Con mia grande sorpresa qualche mese dopo ripassando vedo il libro in vetrina, vedo anche la maga, la seguo, la fermo, ma incredibilmente lei finge di non conoscermi, e io apprendo la dura lezione del ghost writer:

finito il lavoro, non sei mai esistito.

Crisi.

47 tentativi fallimentari d’impresa culturale – 5

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5 letteratura giovanileil mito dell’esordio letterario

Nel 1989 seguo alla Statale di Milano un corso di Brioschi sul Laboerintus di Sanguineti, mi colpiscono in particolare  le “Composte terre in strutturali complessioni” e mi colpisce soprattutto una morettina col baschetto-frangetta tipo Valentina by Crepax.

Per fare colpo su di lei comincio a scrivere brani di prosa poetica sperimentale.

Sono dei racconti brevi, sgrammaticati, senza punteggiatura. La morettina apprezza e incoraggia. Scatta l’ignoranza, mi metto a scrivere compulsivamente.

Compro tutte le riviste di letteratura underground e d’avanguardia, vado a Bologna alle prime riunioni Luther Blisset, studio scientificamente indirizzi, nomi, referenze dei cosiddetti piccoli editori (dove spesso si nascondono i grandi editor).

Poi la morettina dice: ho parlato con il mio fidanzato.

Crisi.

Invece viene fuori che anche al suo fidanzato piacciono molto i miei racconti, e anche al padre del suo fidanzato, che è un noto pittore amico di un pittore notissimo, al quale pure sono piaciuti molto i miei racconti, tanto che li ha dati a un suo amico, un piccolo editore molto chic, Corpo10, che pubblica testi di “prosa poetica” di autori come Pagliarani, Porta, Pontiggia, Majorino, Roversi, Tadini.

Corpo10 ha sede in una libreria in via Messina, ritrovo di pittori, scrittori, designer, architetti. Il patron di Corpo10 è Michelangelo Coviello, egli stesso poeta, copy e romanziere. Una sua raccolta si intitola “Dobbiamo vendere il cielo”.

Dunque, senza nemmeno averglieli mandati, incontro questo editore interessato ai miei racconti.

Mi dice che i miei racconti sono molto belli e dunque ha intenzione di pubblicarli. Devo solo dire di sì. Come nei film.

Emilio Tadini disegna la copertina, il libro si intitola “nylon verde”, 1991, Corpo10, lire dodicimila. Viene presentato a Radio Popolare, in librerie di Milano e Bologna, alla fiera dei piccoli editori al castello di Belgioioso, vengo invitato a Milano Poesia.

Avere meno di 25 anni, e un tuo libro con il tuo nome in vetrina nelle librerie più prestigiose, ti fa credere certamente di essere il più grande giovane scrittore italiano.

Da questa illusione giovanile, di cui tanti siamo rimasti vittima in ogni settore creativo, dalla fisica nucleare alla canzone popolare, derivano anni e anche decenni di delusioni.

Per cominciare, nel mio caso: scrivo altri racconti per il mio secondo libro, e sono racconti illeggibili, e impubblicabili.

Nel giro di un paio d’anni l’etichetta Corpo10 cessa le pubblicazioni.

Vengo invitato a ritirare le copie del mio libro a duemila lire l’una. Indignato, rifiuto, e abbandono il mio libro al suo destino (il macero).

Crisi.

Quasi vent’anni dopo ne trovo una copia stropicciata in una libreria ramainders, al prezzo di 3 euro, e dopo averci pensato a lungo (avevo in tasca 5 euro e una sigaretta, e il bancomat fuori uso causa rosso estremo) la compro.

Mi chiudo in casa, mi preparo un bagno caldo, mi verso mezzo bicchiere di Laphroig, mi accendo la mia bella sigaretta e comincio a leggere.

Crisi.